J. L. Borges: Pierre Menard, autore del «Chisciotte». (riflessioni su)

Pierre Menard, autore del «Chisciotte» (da “Finzioni”, 1944): manifesto dell’estetica di J. L. Borges.

di   Valerio Ferlito

  1. Introduzione

Il racconto, inserito nella raccolta “Il Giardino dei sentieri che si biforcano” del 1941, poi confluita nella raccolta “Finzioni” (1944), è il primo scritto da Borges dopo l’incidente della vigilia di Natale 1938 e la conseguente setticemia,  che misero in pericolo la sua vita, costringendolo in coma per quasi un mese e facendogli temere per l’integrità delle sue facoltà mentali.

Questi eventi, così ci informa lo stesso Borges in “Abbozzo di autobiografia” (Einaudi, 2007, pp. 163-164), determinarono una svolta nella sua produzione letteraria, che, da un lato, si orientò verso un nuovo genere letterario: il saggio-racconto, dall’altro, venne connotandosi per una nuova estetica.

“Pierre Menard”, pubblicato la prima volta nel numero 56 del mese di Maggio del 1939 della rivista “Sur”, è il primo racconto dal quale traspare questa svolta profonda.

Se non fosse per il suo carattere ermetico e per la complessità e molteplicità dei livelli di significato, che, come avremo modo di verificare, richiedono un particolare approfondimento interpretativo, si potrebbe dire, in modo sostanzialmente appropriato, seppur ricorrendo ad un ossimoro, che esso costituisce un manifesto della nuova estetica di Borges, da lui in seguito non più modificata.

Nel numero 68 di Maggio del 1940, Borges pubblicò, sulla stessa rivista, il racconto “Tlön, Uqbar, Orbis Tertius”.

I due racconti sono legati da un filo logico di continuità ed esprimono in modo congruente: il primo, come detto, la concezione di Borges della letteratura, della lettura, dell’interpretazione e della traduzione creativa, cioè “la discussione estetica” (“Nessun problema è più consustanziale con le lettere e col loro modesto mistero di quello che propone una traduzione” ed, ancora, “… La loro traduzione, invece, sembra destinata ad illustrare la discussione estetica”, da “Le Versioni omeriche” in “Discussione”, 1932); il secondo, di ordine più generale, il suo ordinamento di valori.

L’interpretazione di “Pierre Menard”, dunque, trova in quella di “Tlön” un punto di riferimento e di conferma.

Vedremo anche, procedendo nell’esame, come tra i due racconti vi siano forti analogie di ordine strutturale e semantico.

Conviene subito evidenziarne una: la circostanza che entrambi siano volutamente caratterizzati dall’inaffidabilità del narratore e dalla conseguente, connessa difficoltà interpretativa.

In “Pierre Menard”, l’ironia, a volte spinta fino alla satira, gettando discredito sul narratore e sul protagonista – presentati entrambi come inaffidabili – risulta funzionale a far intendere come Borges si distanzi dalle loro idee e se ne burli.

In “Tlön”, l’intento del confondimento del lettore è apertamente dichiarato: “Bioy Casares …. stava parlando di un suo progetto di romanzo in prima persona, in cui il narratore, omettendo o deformando alcuni fatti, sarebbe incorso in varie contraddizioni, che avrebbero permesso ad alcuni lettori – a pochissimi lettori – di indovinare una realtà atroce o banale.”

In “Pierre Menard” è, invece, implicito, ma facilmente evincibile dal contesto.

Si tratta, in entrambi i casi, di racconti fantastici, opere di un letterato, non di un filosofo, che, insieme ad un indiscutibile, straordinario ed affascinante valore stilistico ed estetico, presentano profondi contenuti sottostanti, di carattere teorico e filosofico.

Come accennato, con “Pierre Menard”, Borges chiude una fase della sua evoluzione di pensiero, quella dell’Avanguardia e dell’Ultraismo, caratteristica del decennio 1920-1930, ed entra in una fase più matura, che gli conferirà rinomanza mondiale e lo consegnerà alla Storia della letteratura  con la statura di un classico.

Già con il saggio “Le «Nuove Generazioni Letterarie»”, pubblicato il 26/2/1937 sulla rivista “El Hogar” e poi raccolto in “Testi Prigionieri”, Adelphi, 1998, pp. 79-82, egli aveva apertamente preso le distanze, con autocritica, dalle sue posizioni ed idee estetiche degli anni compresi tra il 1921 e il 1928.

Nella “Premessa” alla raccolta che lo contiene, Borges dichiara: “…in Pierre Menard, autore del Chisciotte è irreale il destino che s’impone il protagonista. La lista degli scritti che attribuisco a Menard non è divertentissima, ma non è arbitraria; è un diagramma della sua storia mentale…”.

Si desumono, dunque, due elementi: il primo, concerne il protagonista del racconto, il poeta, romanziere simbolista francese Pierre Menard, personaggio immaginario del racconto: infatti, Borges afferma di avergli “attribuito” degli scritti.

Il secondo, riguarda il valore che Borges annette alla lista degli scritti a lui attribuiti, qualificata come non “arbitraria”: essa costituisce, anzi, un “diagramma della sua storia mentale”.

Indizio chiaro, che depone per la rilevanza riconosciuta da Borges alla formazione speculativa e culturale di Pierre Menard ai fini interpretativi del racconto (sostrato filosofico) e, insieme, conferisce autenticità al criterio interpretativo fondato sull’importanza attribuita da Borges a tutti e a ciascuno dei temi d’interesse del protagonista: ciò indica e consente di mettere a fuoco i diversi e molteplici livelli di significato del racconto e le loro interconnessioni.

Altro elemento offerto dall’autore, ricco di forza direttiva sul piano dell’interpretazione, è costituito dalla circostanza che sia in “Pierre Menard”, sia in “Tlön”, il protagonista ed il narratore, rispettivamente, sono intenti alla traduzione di un’opera letteraria barocca, il Don Chisciotte della Mancia di Cervantes (1547-1616) e l’Urn Burial di Thomas Browne (1605-1682), traduzione, in entrambi i casi, non destinata alla pubblicazione, ma ispirata soltanto da fini e da valori emblematici.

Infine, avremo modo di vedere quale sia la rilevanza dell’ordine cronologico con cui vengono presentate le opere visibili di Pierre Menard, ordine che allude ad un’evoluzione di pensiero nel corso della vita, sia del protagonista, sia del personaggio da lui evocato, sia dello stesso Borges.

 

  1. Presenza di Cervantes nell’opera di Borges

La produzione letteraria di Borges registra numerosi riferimenti a Cervantes (1547-1616) e al suo immortale capolavoro, il Don Chisciotte della Mancia, significativamente considerato un classico.

Il primo racconto, andato perduto, “La visera fatal” (L’elmo fatale), Borges lo scrisse a sette anni ed era tratto dal Don Chisciotte. “Cominciai a scrivere quando avevo sei o sette anni. Cercavo di imitare gli scrittori classici spagnoli – Miguel de Cervantes, per esempio. … Il mio primo racconto fu una cosa piuttosto insensata alla maniera di Cervantes, un testo vecchio stile intitolato La visera fatal.” (Abbozzo di autobiografia, Einaudi, 2007, pp. 132-133).

Le ragioni del forte e costante interesse di Borges per Cervantes e per il Don Chisciotte, durato tutta la vita, sono molteplici e, in larga parte, sono espresse nelle sue opere saggistiche, ma possono anche essere inferite dai racconti, dalle poesie e dalla sua biografia, dai quali emergono  importanti elementi di identificazione psicologica e di convergenza di esperienze con il personaggio di Alonso Quijano, ed anche una convergenza di visione estetica, aspetto, quest’ultimo, qui particolarmente rilevante, che sarà sviluppato nella parte dedicata al significato del racconto.

Il Don Chisciotte fu, dunque, tra i primissimi romanzi da lui letti.

Nella sua autobiografia, Borges racconta che lo lesse, intanto, in inglese e che, quando più tardi lo rilesse in originale, gli parve una brutta traduzione. Fornisce anche alcuni dettagli, indicativi della grande attenzione e cura (quasi paranoica) da lui posta nella lettura del testo e dell’affezione ad esso riservata. “Ricordo ancora quei volumi rossi con le lettere dorate dell’edizione Garnier. A un certo punto la biblioteca di mio padre andò perduta e leggere il Don Chisciotte in un’altra edizione mi dava l’impressione che non fosse il vero Don Chisciotte. Più tardi un amico mi procurò l’edizione Garnier con le stesse illustrazioni, le stesse note, perfino gli stessi errori di stampa. Per me tutte queste cose fanno parte del libro; ed è quel libro che io considero il vero Don Chisciotte.” (Abbozzo di autobiografia, Einaudi, 2007, p. 131).

Sin dal suo primo capitolo, il Don Chisciotte offre spunti e presenta caratteristiche precorritori della poetica di Borges.

Cervantes  sogna il personaggio Alonso Quijano, che, a sua volta, crede di essere, come in altro sogno intriso di follia, il cavaliere Don Chisciotte. “La letteratura è un sogno guidato” (da “Nathaniel Hawthorne”, in “Altre Inquisizioni”, 1952).

Alonso Quijano è un uomo mite e disinteressato, gran lettore di libri di cavalleria, non è uomo d’azione;  ad un certo punto, per il troppo leggere e ragionare su ciò che leggeva e per il poco dormire, perde il senno e, nella follia, immagina di essere un cavaliere pronto a compiere le imprese di cui aveva piena la testa, quali s’addicono, appunto, ad un cavaliere errante.

Ripulisce le armi dei suoi antenati (qui s’inserisce la favola dell’elmo, che ispirò a Borges bambino il racconto La visera fatal).

Fantastica che un cavaliere deve avere una dama di cui innamorarsi e la individua, in modo unilaterale, in una bella contadina di un paesetto vicino al suo, cui dà il nome di «Dulcinea del Toboso».

A questo punto, è pronto a compiere le sue opere filantropiche, di bene e di giustizia e s’avventura nel mondo.

Alla sua generosità e nobiltà d’animo non sempre corrisponderanno risposte coerenti del destino; anzi, più volte il mondo si rivelerà ingiusto con lui (aspetti autobiografici del romanzo).

Ma, insieme con la nobiltà d’animo, i suoi tratti distintivi sono un’invincibile illusione e un’inesauribile fiducia.

Cervantes, da genio poetico qual era, riesce a far nascere verso questo personaggio ascetico un sentimento di simpatia, di solidarietà  ed anche d’affetto, sublimando nell’umanità, ogni aspetto, anche filosofico e culturale, pur presente nel romanzo.

Non indugia in descrizioni psicologiche; fa solo parlare gli avvenimenti, spesso le sventure, ed i comportamenti dell’«ingenioso hidalgo».

Numerosi temi presenti nel romanzo cervantino alimenteranno la poetica borgesiana, costituendovisi in topoi: la reazione contro la cultura dominante, la fantasia e la realtà, il carattere problematico del romanzo, il contrasto tra vita attiva e vita contemplativa (il discorso delle armi e delle lettere), la relazione tra poesia e filosofia e, quindi, la questione della lingua come simbolo di umanità e di civile conversazione (influenza dei dialoghi di Platone), l’idea del romanzo nel romanzo, del libro dello stesso autore nel romanzo, l’idea dell’amore, etc..

Anche Cervantes, come Borges, è poeta, non filosofo, ma sa cogliere l’essenza delle questioni e ne fa materia di fantasia, di sublime poesia.

Sul piano della convergenza di esperienze di vita, se Alonso Quijano conobbe la realtà esterna attraverso la lettura dei libri di cavalleria e tanto vi si immedesimò da realizzare le sue gesta, figurandosele con la fantasia, così il giovane Borges passò la sua infanzia senza amici (andò a scuola a nove anni e i compagni lo deridevano perché era timido ed occhialuto), chiuso tra le mura della sua casa di calle Serrano 2135, nel quartiere di Palermo, dentro la biblioteca del padre.

In quella casa, con la sorella Norah, per sopperire al naturale bisogno di amici, spontaneo nei bambini, inventarono due compagni immaginari chiamati Quilos e The Windmill (da Abbozzo di autobiografia, Einaudi, 2007, p. 130).

Più tardi, quand’era impiegato nella biblioteca civica Miguel Cané a Buenos Aires, poiché non c’era praticamente nulla da fare, egli sbrigava tutto il suo lavoro nella prima ora e poi scendeva in cantina dove passava le altre cinque ore, leggendo o scrivendo (da Abbozzo di autobiografia, Einaudi, 2007, p. 163).

Queste peculiari circostanze di vita influenzarono molto la sua relazione con la realtà esterna, che diveniva prevalentemente indiretta, mediata dall’esperienza della lettura, priva d’azione diretta, di esperienza concreta: una concezione della realtà solipsistica ed idealista.

A tali esiti cooperò ulteriormente la debolezza della vista e la successiva cecità, intervenuta intorno ai cinquantacinque anni d’età, che introducevano, anch’esse, un diaframma con il mondo reale: “E poi, miope com’ero, i miei primi ricordi non sono del quartiere Palermo né dei visi cangianti dei miei genitori, ma dei libri, delle illustrazioni, delle mappe, dei dorsi e delle rilegature dei libri. I miei ricordi sono in realtà ricordi di libri più che di persone”. (da “Nuova conversazione su Alonso Quijano” in “Ultime conversazioni con Osvaldo Ferrari”, Bompiani, vol. III, pp. 67-73).

Inoltre, Alonso Quijano, racconta Cervantes, non era un buon amministratore del suo patrimonio: “a tanto giunse la sua curiosità e la sua mania in queste letture che s’indusse a vendere molti ettari di terra seminativa per comprare libri di cavalleria da leggere.” (Don Quijote, I, I).

Borges  racconta di sé: “Nel 1929 il terzo libro di saggi (“L’idioma degli Argentini”) vinse il secondo premio municipale di tremila pesos, che a quel tempo era una somma principesca.

Con quel denaro volevo comprare per prima cosa l’undicesima edizione usata dell’Enciclopedia Britannica.” (Abbozzo di autobiografia, Einaudi, 2007, p. 154).

Immedesimazione psicologica si registra anche nell’aspetto della timidezza, che connota il rapporto con la donna, il sentimento d’amore.

S’è già detto come Alonso Quijano avesse immaginato, in modo unilaterale, dunque idealizzato, il suo rapporto con “Dulcinea del Toboso”, personaggio femminile da lui creato come nel sogno: “In un paesetto presso al suo, viveva una giovane contadina di bellissimo aspetto, della quale egli era stato, un tempo, innamorato: sebbene, a quanto si capisce, lei non lo seppe mai, né ci fece mai caso.” (Don Quijote, I, I).

Anche in Borges la figura femminile è idealizzata, in quanto, in concreto, il rapporto con essa non fu mai pienamente soddisfacente, o perché non corrisposto e, dunque, frustrante (si veda Beatriz Viterbo dell’Aleph o Teodelina Villar di El Zahir), o perché inadeguato alle elevate aspettative ideali dello scrittore: “Io credo d’essere stato sempre innamorato in vita mia, da che ho memoria.

Ma naturalmente il pretesto cambiava, le donne erano molteplici, sebbene ciascuna fosse l’unica.

Il fatto che cambiassero apparenza o nome non ha importanza, quello che importa è che io le sentissi ogni volta come l’unica. Ho pensato una volta che forse una persona innamorata vede quella che ama come la vede Dio, cioè nel modo migliore”. (da “Sull’amore” in “Altre conversazioni con Osvaldo Ferrari, Bompiani, 1989, p. 89).

Nel saggio “Professione di fede letteraria” (in “La misura della mia speranza”, 1926), Borges afferma: “Tutta la letteratura è autobiografica, alla fine. Tutto è poetico, in quanto ci confessa un destino, in quanto ce lo fa intravedere.” Ed, ancora: “Tutta la poesia è la piena confessione di un io, di un carattere, di un’avventura umana. Il destino così rivelato può essere di finzione, archetipico (narrazioni del Don Chisciotte, …), o personale: autonarrazioni di Montaigne, di Tommaso De Quincey, di Walt Whitman, di qualsiasi vero lirico. Io aspiro a quest’ultimo”.

Traspare, dai riscontri evidenziati, quanto profonda fosse l’identificazione con il personaggio di Alonso Quijano, sia sotto il profilo psicologico, sia per quanto riguarda il destino, onde, non sorprende se, più avanti negli anni, sarà lo stesso Borges a sottolinearla, nel poema “Lettori” (da “L’altro, lo stesso”, 1964): “Di quell’hidalgo di giallina e secca/Pelle e anelante a eroiche imprese, alcuni/Credono che, pur teso all’avventura,/Non sia mai uscito dalla biblioteca./La cronaca puntuale che ne narra/Gli slanci e le tragicomiche gesta/Fu sognata da lui, non da Cervantes,/Ed è solo una cronaca di sogni./Tale anche la mia sorte. Ho seppellito,/Lo so, qualcosa d’immortale nell’/Antica biblioteca del passato/In cui lessi la storia dell’hidalgo./I lenti fogli volta un bimbo, grave,/E sogna di cose vaghe che ignora.”

Per altro verso, Borges ventinovenne – che attraversava a livello personale la fase eroica e nazionalista ed aspirava alla creazione del capolavoro, nutrendo l’ambizione di elaborare una mitologia che offrisse la base di una cultura alla sua giovane nazione – nel saggio “La condotta romanzesca di Cervantes” (1928), considerava Cervantes un autore-dio: “Nessun altro destino scritto fu abbandonato dal suo dio quanto quello di Don Chisciotte.” E, quanto alla sua personale fase eroica: “Ormai Buenos Aires, più che una città, è una nazione e bisogna trovare la poesia e la musica e la pittura e la religione e la metafisica adatte alla sua grandezza. Questa è la misura della mia speranza, che ci invita tutti ad essere dei e a lavorare alla sua incarnazione”. (dal Prologo a “La Misura della mia Speranza”, gennaio 1926).

Nel 1929, Borges pubblicava il poema “Fondazione mitica di Buenos Aires”, nella raccolta “Quaderno San Martin”.

Questa fase giovanile e la connessa concezione dell’autore di letteratura, come vedremo, evolveranno in “Pierre Menard” in quella dell’autore-lettore e, successivamente, in quella dell’autore-sognatore.

 

  1. Analisi del racconto

3.1    L’opera visibile di Pierre Menard

 

Il narratore, amico ed ammiratore di Pierre Menard, un immaginario poeta simbolista francese recentemente scomparso, apre il racconto in forma di necrologio, dichiarando doveroso il suo intervento a rettifica di errori ed omissioni commessi da Madame Henri Bachelier, nel pubblicare su un giornale di tendenza protestante, un catalogo ingannevole delle opere dello scomparso, che ne appanna la Memoria.

Tanto più l’Errore è ritenuto imperdonabile, in quanto l’opera visibile di Pierre Menard è dichiarata “di facile e breve enumerazione”.

Il tono e lo stile adottati in questa parte iniziale del racconto sono apertamente ironici.

Il narratore utilizza una prosa retorica, ricca di frasi ad effetto: i “cipressi infausti”, il “marmo finale”, l’Errore, la Memoria, entrambi in carattere maiuscolo, tutti esempi di uno stile ampolloso e ridondante, affatto distante da quello sorvegliatissimo e formalmente ineccepibile, tipico di Borges della maturità.

Peraltro, va sul punto osservato che la traduzione italiana omette due passaggi importanti ai fini dell’interpretazione.

Infatti, il testo spagnolo, dopo le parole “ai suoi deplorevoli lettori”, registra le seguenti: “ – si bien éstos son pocos y calvinistas, cuando no masones y circuncisos.” (anche se questi sono pochi e calvinisti, quando non massoni e circoncisi).

E, più avanti, dopo le parole “filantropo internazionale Simon Kautzsch”, inserisce le seguenti: “tan calumniado, ¡ay!, por las víctimas de sus desinteresadas maniobras” (tanto calunniato, ahi!, dalle vittime delle sue disinteressate manovre).

Entrambe le espressioni appaiono forti. Certamente estranee allo stile leggero e misurato, proprio di Borges.

Il narratore ebbe l’onore di conoscere il compianto poeta ai vendredis organizzati dalla baronessa di Bacourt, la cui alta testimonianza adesso invoca a supporto della sua povera autorità, insieme con quella della contessa di Bagnoregio, uno degli spiriti più fini del Principato di Monaco, e ora di Pittsburgh, Pennsylvania, dopo le recenti nozze con il filantropo internazionale Simon Kautzsch.

Il narratore frequenta, dunque, i medesimi circoli culturali di Pierre Menard, che fanno capo alle due nobildonne, che, a ben vedere, non vantano altri titoli, men che meno culturali, al di fuori di quelli derivanti dal loro stato nobiliare (“Questi titoli di nobiltà, credo, non sono insufficienti.”).

Egli tiene comportamenti discutibili e, talora, incoerenti sino all’ipocrisia.

Dimostra, infatti, intransigenza religiosa e razziale, definendo deplorevoli i lettori del giornale su cui Madame Henri Bachelier ha pubblicato il catalogo asseritamente ingannevole delle opere di Pierre Menard, e classificandoli, con disprezzo, calvinisti, massoni ed ebrei.

La circostanza assume peculiare significato spregiativo se si considera che i fatti si svolgono nella Francia del  1939 e rivelano, da un lato, il clima reazionario e nazionalista ivi diffuso nel periodo prebellico; dall’altro, lasciano trasparire l’ironia di Borges verso quel clima intransigente e razzista, che egli, in più occasioni, ha criticato con durezza, clima che produsse le conseguenze atroci che la Storia ha tramandato e che egli denuncerà in “Tlön”.

La condotta del narratore contrasta, all’evidenza, con l’ampiezza di vedute, con la tolleranza e con il bon ton che dovrebbero caratterizzare l’uomo di cultura, l’artista.

Egli sottovaluta la circostanza che Pierre Menard avesse scritto dei sonetti per “l’ospitale – o avido – album di Madame Henri Bachelier”.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                        Contesta l’esistenza, affermata da Madame Bachelier, tra le opere di Pierre Menard, di una traduzione letterale di una traduzione letterale che fece Quevedo della Introduction à la vie dévote di San Francesco di Sales.

Ciò, in forza dell’argomento che nella biblioteca del poeta non si rinviene traccia di quell’opera.

Ma l’argomento è contraddittorio: infatti, nella biblioteca non si rinviene alcuna traccia nemmeno dell’opera “invisibile” di Pierre Menard: i capitoli del «Chisciotte» che pure egli gli attribuisce.

Il narratore appare, dunque, ancora una volta, parziale ed inaffidabile.

E va anche oltre quando si riferisce alle sue benefattrici: infatti, sotto il velo di un linguaggio apparentemente encomiastico ed adulatorio, cela una sottile perfidia, sottolineando che il marito della contessa di Bagnoregio, Simon Kautzsch, presentato come “filantropo internazionale”, è tanto calunniato, ahimè!, dalle vittime delle sue disinteressate manovre.

Certo, appare improbabile che manovre “disinteressate” di un “filantropo” possano causare “vittime”, per cui, in modo coperto ed infìdo, il narratore divulga, invece, che quel soggetto non è di specchiate qualità morali, approfittando, nel far ciò, dell’evidente incapacità dei mecenati, nobili ma non letterati, di leggere tra le righe.

La stessa contessa è costretta a pubblicare annualmente sul “vittorioso volume”, così definito da Gabriele D’annunzio, altro accolito fascista (inviso a Borges) del circolo letterario, le rettifiche alle calunnie che la stampa le indirizza a causa delle opere da lei compiute.

In definitiva, emerge un quadro moralmente discutibile di intrecci di interessi, che nulla hanno a che vedere con lo spirito dell’artista puro; anzi, risulta confermato come il narratore sia un soggetto non solo inaffidabile, ma anche cinico.

Al fine di contestare il catalogo ingannevole di Madame Henri Bachelier, il narratore esamina con zelo  gli archivi personali del poeta.

Utilizzando la locuzione avverbiale “con zelo”, egli richiama il personaggio di Hilario Lambkin Formento, nel racconto “Naturalismo al Día” (abbozzato già nel 1939), inserito nella raccolta “Cronache di Bustos Domecq” (1967), critico realista decrittivista, di estrazione aristotelica, nell’ampia accezione attribuita a questo termine da Coleridge e riferita da Borges in “Dalle Allegorie ai Romanzi” (1949), nella raccolta “Altre Inquisizioni”.

Così prefigura quei caratteri dell’estetica della forma, che caratterizzano, come approfondiremo, l’opera visibile di Menard, allontanandola dalla concezione platonica cui, invece, aderirà, nella sua evoluzione stilistica, Borges nella maturità, e che sono da lui espressi e perorati nel racconto.

In tal modo, tuttavia, il narratore introduce elementi di disorientamento, in quanto, com’è noto, il Simbolismo, sul piano filosofico dell’interpretazione della realtà, si contrappone al Naturalismo: per i simbolisti, la poesia rivela l’essenza più profonda e misteriosa delle cose; esso rifiuta la pretesa del Naturalismo di compiere un’analisi scientifica ed oggettiva della realtà, su base razionale.

Il Simbolismo ricerca un linguaggio diverso da quello comune, un linguaggio poetico puro, che persegue fini di bellezza estetica in sé e per sé, e che, dunque, tenderebbe a rendere autonoma l’arte da ogni condizionamento sociale; ciò, ancora una volta, contrasta con l’appartenenza del narratore e di Pierre Menard a circoli letterari nei quali si realizzano scambi di interessi materiali e venali, che sviliscono la figura dell’artista, costretto al servo encomio dei suoi discutibili mecenati.

Vi sono qui allusioni al clima che caratterizzava la cultura a Buenos Aires nel 1939, ai suoi circoli letterari, l’un contro l’altro armati, costituiti intorno alle testate delle principali riviste letterarie, tra cui “Sur”, il cui direttore, Victoria Ocampo, sorella di Silvina, alla quale è dedicato il racconto, era notoriamente francofila e amica di Paul Valéry.

Anche questi era ospite fisso del salotto letterario di Madame Mühlfeld, della cui protezione mondana fruiva.

L’avversione di Borges, oltre che dal rilevato uso dell’ironia, è resa anche manifesta dal voluto errore della mancata apposizione dell’accento acuto sulla “e” di Menard (non Ménard).

Così tratteggiato il personaggio del narratore, rivolgiamo adesso l’attenzione al protagonista del racconto: Pierre Menard e, per rimanere fedeli all’indirizzo dallo stesso Borges espresso nel prologo alla raccolta, passiamo in rassegna la sua produzione letteraria che costituisce “un diagramma della sua storia mentale”.

L’elenco delle sue opere è formato da 17 lavori, indicati con le lettere dalla a) alla s).

Esaminiamole partitamente.

a)  Un sonetto simbolista pubblicato due volte nella rivista «La conque» nel 1899;

Pierre Menard è un poeta simbolista, amico di Paul Valéry. La rivista «La conque» fu fondata nel 1889 da Pierre Louÿs, amico di Valéry, e lo stesso Valéry vi pubblicò le sue prime poesie (da Borges, “Paul Valéry, Biografia sintetica”, Testi prigionieri, 22/1/1937, Adelphi, 1998, p. 57).

La circostanza che il sonetto sia stato pubblicato due volte (con varianti) destabilizza il primo testo  e rinvia alla concezione borgesiana della letteratura come serie di abbozzi, privi di carattere definitivo: “Che cosa sono le molte (traduzioni) dell’Iliade, se non diverse prospettive di un fatto mobile, se non un lungo sorteggio sperimentale di omissioni e di enfasi? (Non c’è nemmeno bisogno di cambiare lingua, questo deliberato gioco dell’attenzione è anche possibile all’interno di una stessa letteratura). Presupporre che ogni ricombinazione di elementi è per forza inferiore al suo originale, è presupporre che l’abbozzo 9 è per forza inferiore all’abbozzo 11 – giacché non possono esserci che abbozzi. Il concetto di testo definitivo appartiene unicamente alla religione o alla stanchezza” (da “Le versioni omeriche”, in “Discussione”, 1932).

Il poema “Le Cimetière marin” di Paul Valéry fu pubblicato due volte, con variazioni, sulla Nouvelle Revue Française, a maggio e ad agosto del 1920.

Paul Valéry sosteneva che un poema non viene mai terminato, ma piuttosto abbandonato (“Au sujet du «Cimetière marin»”, Variété III, Gallimard, Paris, 1936, pp. 60-61).

b)  Una monografia sulla possibilità di compilare un dizionario poetico di concetti che siano

«oggetti ideali creati secondo una convenzione e destinati essenzialmente alle necessità poetiche» (1901);

Nel saggio “Sproloquio per versi” (1926) dal libro “La misura della mia speranza”, Adelphi, 2007, pp. 42-46, il giovane Borges aveva ipotizzato quanto qui attribuisce a Pierre Menard: “Altra cosa sarebbe tuttavia un vocabolario deliberatamente poetico, una raccolta di rappresentazioni intollerabili dal linguaggio comune. Il mondo delle apparenze è complicatissimo e la lingua ha effettuato solo una minima parte delle combinazioni inesauribili che si potrebbero realizzare con esso. Perché non creare una parola, una sola, per la percezione congiunta dei campanacci che si ripetono alla sera e del tramonto in lontananza? Perché non inventarne un’altra per l’aspetto disastroso e minaccioso che hanno le strade all’alba?….”. Nello stesso saggio, fedele all’idea crociana che la letteratura è espressione e che, essendo fatta di parole, il linguaggio è anche un fenomeno estetico, afferma: ”La luna è una finzione….non esiste nessuna somiglianza tra la rotondità gialla che si sta alzando adesso con chiarezza sul muraglione della Recoleta, e lo spicchio rosa che vidi nel cielo di Plaza de Mayo, molte notti orsono.”

Nella conferenza tenuta nel 1977 al teatro Coliseo di Buenos Aires intitolata alla ”Poesia”, Borges ritornerà sul valore poetico di ciascuna parola: “Ogni parola è un’opera di poesia”; in particolare, approfondisce ulteriormente diversi significati poetici della parola “luna” ed una metafora persiana che indica la luna come “specchio del tempo”” (da “Sette Notti”, Feltrinelli, 1983, p. 85 e ss.).

Egli, inoltre, precisa che: “A torto si suppone che il linguaggio corrisponda alla realtà, a quella cosa tanto misteriosa che chiamiamo realtà. La verità è che il linguaggio è un’altra cosa.” (ibidem).

Nel racconto “Tlön”, illustrando gli idiomi dei due emisferi di Tlön, particolarmente quello dell’emisfero boreale, afferma: “Vi sono poemi famosi composti d’una sola enorme parola. Questa parola corrisponde a un solo oggetto, l’oggetto poetico creato dall’autore”.

L’idea del poema composto da una sola parola deriva dall’idealismo di Platone e di Hegel; essa sarà sviluppata nei racconti  “Lo specchio e la Maschera” e “UNDR”, entrambi della raccolta “Il libro di sabbia” del 1975.

Il linguaggio poetico puro, come s’è già rilevato, è un’aspirazione del Simbolismo.

Valéry, insoddisfatto, come Borges, del linguaggio, immaginò addirittura di costruirsene uno proprio, una lingua artificiale, distinta e precisa, secondo l’esempio matematico: “Mon idée fut de concevoire une langue artificielle fondée sur le réel de la pensée, langue pure, système de signes – explicitant tous les modes de représentation – qui soit à la langue naturelle ce que la géométrie cartésienne est à la géométrie des Grecs…” (Cahiers, I, 425). (La mia idea fu di concepire una lingua artificiale fondata sul pensiero reale, una lingua pura, un sistema di segni – capace di esplicitare tutti i modi di rappresentazione – che stesse alla lingua naturale come la geometria di Cartesio sta a quella del Greci …).

c)  Una monografia su «certe connessioni e affinità del pensiero di Descartes, di Leibniz e di John Wilkins (1903);

Nel saggio “L’Idioma analitico di John Wilkins”, in “Altre Inquisizioni”, 1952, Borges esamina la questione del linguaggio.

Egli, prendendo le mosse dall’opera di John Wilkins (1614-1672) “An Essay towards a Real Character and a Philosophical Language” (1668), passa in rassegna due aspetti: quello della lingua universale, che risponde ad un’esigenza comunicativa, in quanto il superamento della differenza degli idiomi porrebbe rimedio alla confusione linguistica post babelica, e l’altro, per lui fondamentale, della lingua perfetta, quella capace di riflettere l’essenza ontologica e la struttura della realtà, che soddisferebbe, dunque, un’esigenza conoscitiva.

Già il 7/7/1939 aveva pubblicato su “El Hogar” un articolo su John Wilkins, nel quale affermava:

“Il Saggio circa  un carattere reale e un linguaggio filosofico propone un catalogo ragionato dell’universo e da tale catalogo desume una rigorosa lingua internazionale” (da “John Wilkins, preveggente”, in “Testi prigionieri”, Adelphi, 1998, pp. 330-332).

John Wilkins fu in Inghilterra uno dei massimi teorizzatori della lingua perfetta.

In Francia, sin dalla prima metà del XVII secolo, il dibattito sulla lingua universale raggiunse il suo apogeo, come può essere ricostruito dall’epistolario sul tema tra padre Marin Mersenne (1588-1648) e René Descartes (1596-1650), a partire dal 1629 (Borges cita la lettera di Descartes del 20/11/1629).

Il dibattito sulla lingua perfetta era stato avviato da Bacone (1561-1626) in relazione agli idola fori,

le false idee derivanti dall’inadeguatezza della lingua ad esprimere in modo trasparente e diretto la realtà, senza confusioni, né riferimenti illusori ad oggetti di realtà inesistenti.

Borges ne fa cenno nell’ “Epilogo” a “Storia della notte” (1977): “La materia di cui dispone (il poeta), il linguaggio, è, come afferma Stevenson, assurdamente inadeguata. Che fare con le consumate parole – con gli Idola Fori di Francis Bacon – e con alcuni artifici retorici che si trovano nei manuali?”

Descartes nella lettera del 1629 solleva una questione pregiudiziale: “l’invenzione di questa lingua dipende dalla vera Filosofia; perché altrimenti è impossibile  elencare tutti i pensieri  degli uomini, e metterli in ordine, e nemmeno distinguerli in mondo che essi siano chiari  e semplici, che, a mio avviso, è il più grande segreto che si possa avere per acquisire la buona scienza. E se qualcuno avesse spiegato bene quali sono le idee semplici che sono nell’immaginazione degli uomini, e di cui è composto tutto ciò che pensano, e se ciò fosse recepito da tutti, io oserei sperare, di lì a poco, in una lingua universale  facilissima da imparare, da  pronunciare e da scrivere, e, ciò che più conta,   [una lingua] che aiuterebbe nel giudizio, presentandogli tutte le cose così distintamente, che gli sarebbe quasi  impossibile sbagliarsi.”

Come si vede, egli postula un alfabeto dei pensieri, delle “idee semplici”.

In altri termini, pone un problema di classificazione delle idee. In ciò risiede il limite intrinseco dell’invenzione.

Come rileva lo stesso Descartes, l’individuazione delle “idee semplici”, che Leibniz (1646-1716) chiamerà “concetti primitivi”, è improbabile, in quanto “dipende dalla vera Filosofia”.

Borges, infatti, nel saggio citato “L’Idioma analitico di John Wilkins” afferma: “Ho registrato gli arbitrî di Wilkins…; notoriamente, non c’è classificazione dell’universo che non sia arbitraria e congetturale. La ragione è molto semplice: non sappiamo che cosa è l’universo”. Traspare qui lo scetticismo di derivazione humiana.

Ciò che, però, maggiormente interessa sottolineare, ai fini interpretativi del racconto, è il metodo adottato dai nominati filosofi, che si basa sull’arte combinatoria.

Infatti, a parte il vizio genetico evidenziato, cioè l’inaffidabilità dell’alfabeto dei pensieri, il processo successivo è rigoroso, essendo fondato sulla combinazione delle idee semplici, per ottenere una serie infinita di nuovi pensieri.

La genialità dell’intuizione di Leibniz consistette nell’applicare il calcolo matematico, nato per il linguaggio numerico, ai simboli, dunque anche al linguaggio alfabetico; egli estese l’ambito del calcolabile a qualsiasi tipo di simbolo, onde anche la logica formale poteva essere trattata alla stregua di un vero e proprio calcolo, aritmetico o algebrico.

Leibniz, nel suo “De arte combinatoria” (1666), assegna un numero primo a ciascun termine primo o concetto primitivo non ulteriormente scomponibile (l’idea semplice di Descartes), cosicché,  combinando a due a due tutti i termini del primo ordine, si otterrà una seconda classe di termini, detta di secondo ordine, e così via.

Ogni termine composto, essendo una combinazione di termini primi, è rappresentato dal prodotto dei numeri che corrispondono ai termini primi e ciò costituisce anche la sua definizione.

In questo modo, salvo l’evidenziato limite originario, la classificazione diviene esatta ed univoca.

d)  Una monografia sulla Characteristica universalis di Leibniz (1904);

La “Characteristica universalis” costituisce un ampio ed ambizioso progetto, perseguito con tenacia da Leibniz nel corso della sua vita, volto all’identificazione di un ordine categoriale delle cose mediante il riferimento a concetti primitivi, non più scomponibili, che le rappresentino in modo trasparente ed univoco.

Essa costituisce, dunque, l’insieme dei segni dei concetti primitivi, che forma il presupposto dell’arte combinatoria, per dar vita, in campo linguistico, ai nuovi pensieri in modo rigoroso, con metodo matematico.

La Characteristica universalis presenta, pertanto, due momenti: il primo analitico, mirante all’individuazione dei concetti primitivi ed è, come visto, l’aspetto più debole e problematico; l’altro, sintetico o “combinatorio”, diretto alla corretta combinazione di questi ultimi (aspetto matematico rigoroso).

e)  Un articolo tecnico sulla possibilità di arricchire il gioco degli scacchi eliminando uno dei pedoni di torre;

Il riferimento al gioco degli scacchi è molto frequente nelle opere di Borges.

Egli attribuisce molteplici significati a questo gioco intellettuale, governato da regole precise e rigorose e caratterizzato, soprattutto, dalla possibilità di esprimere infinite combinazioni a partire da un numero limitato e determinato di variabili indipendenti (i pezzi e le case della scacchiera).

E’ questo il significato importante nel racconto, che stabilisce una relazione tra il gioco degli scacchi e il linguaggio, anch’esso caratterizzato dalla possibilità della combinazione infinita delle limitate lettere dell’alfabeto per formare le parole, delle parole per formare i concetti primitivi o idee semplici, e di questi ultimi per formare i concetti complessi.

Entrambi obbediscono a regole precise e rigorose, e si svolgono mediante  processi combinatori, ciò che assumerà rilevanza nella interpretazione del racconto.

Borges non tralascia, nel trattare tali argomenti, da lui stesso definiti nel prologo “non divertenti”, di introdurre elementi ironici, che alleggeriscono l’esposizione ed insieme aiutano a connotare il carattere anòdino del protagonista: “Menard propone, raccomanda, discute, e finisce per rigettare questa innovazione;”.

f)  Una monografia sull’Ars magna generalis di Raimondo Lullo (1906);

Raimondo Lullo (1235-1315), precorrendo Leibniz, inventò un metodo combinatorio, che si attuava mediante l’uso di macchine (ruote figurate), idonee a collegare tra loro i concetti fondamentali, comuni ad ogni scienza, e a pervenire, tramite questa logica meccanica, ad una scienza generale, che riassumesse in sé i principi di tutte le scienze.

L’Ars magna costituì, per Lullo, così come sarebbe stata poi per Leibniz la Characteristica universalis, una missione durata tutta la vita ed esposta in numerose sue opere.

Borges è affascinato da questa invenzione, di cui tuttavia non ignora la velleità, e alla quale dedica un saggio, pubblicato sulla rivista El Hogar, il 15/10/1937, denominandola ivi: “La macchina per pensare”.

Nel saggio, afferma: “Come strumento di indagine filosofica, la macchina per pensare è assurda. Non lo sarebbe, invece, come strumento letterario e poetico. (Fritz Mauthner osserva acutamente – Dizionario di filosofia, vol. I, p. 284 – che un dizionario delle rime è una specie di macchina per pensare). Il poeta che cerca un epiteto per «tigre» procede esattamente come la macchina. Li prova tutti fino a trovarne uno che sia sufficientemente singolare. «Tigre nera» può essere la tigre nella notte; «tigre rossa», tutte le tigri, a causa della connotazione del sangue.”

Valéry, nei suoi Cahiers, afferma: “Leibniz e Descartes hanno avuto la stessa idea – anche Lullo. Un alfabeto dei pensieri – o delle sue forme. Ma Descartes ha visto il grande principio della rappresentazione.” (Quaderni, II, Adelphi, 1986, p. 9).

g)  Una traduzione con prefazione e note del Libro de la invención liberal y arte del juego del axedrez di Ruy López de Segura (1907);

S’insiste sul tema degli scacchi e s’introduce il tema della traduzione (dallo spagnolo barocco del 1560, lo stesso di Cervantes), produttivo di effetti nel racconto.

La “x” di axedrez, anziché la “j” è in onore dell’amico pittore ed intellettuale argentino Xul Solar (1887-1963), da Borges citato in numerose sue opere, tra cui “Tlön, Uqbar, Orbis Tertius”.

h)  Appunti per una monografia sulla logica simbolica di George Boole;

L’ambizioso progetto di Leibniz, consistente nella matematizzazione della logica e nella costruzione di un linguaggio universale denominato Characteristica universalis, rimase incompiuto, infrangendosi, come s’è detto, contro la difficoltà di compilare il dizionario dei concetti primitivi o idee semplici.

Nel 1847, George Boole (1815-1864), matematico e logico inglese, pubblicò “The Mathematical Analysis of Logic, Being an Essay Towards a Calculus of Deductive Reasoning”, nel quale espose la sua tesi secondo cui la logica non deve associarsi alla metafisica, ma alla matematica; egli, per la prima volta, presenta una vera e propria algebra della logica; in altri termini, egli applica alla logica aristotelica, di cui considera soltanto gli aspetti linguistici, tralasciando quelli metafisici, un metodo algebrico simbolico, connotato dalle proprietà di alcune operazioni tipiche dell’algebra, integrate da nuove leggi originali, da lui scoperte (legge degli indici).

In tal modo, avendo individuato quelle leggi del calcolo algebrico che rappresentano proprietà universali delle operazioni di pensiero, Boole riuscì a superare le difficoltà a suo tempo incontrate da Leibniz, residenti, come detto, nella necessità di scomporre il pensiero fin nei suoi più elementari termini, quelli definiti “concetti primitivi” e di censirli, compilandone un dizionario.

i)  Un esame delle leggi metriche essenziali della prosa francese, illustrato con esempi di Saint-Simon (1909);

Pierre Menard è un soggetto veramente singolare: si occupa di cose inconsuete, che rivelano la sua pedante attenzione per i formalismi. Certo, cercare leggi metriche nella prosa va oltre la rarità, quasi verso l’impossibile, come riscrivere ex novo il «Chisciotte», parola per parola, riga per riga.

Borges prepara il lettore a tale sorpresa.

Eppure, lo scrittore realista francese Gustave Flaubert (1821-1880) aveva teorizzato in alcune sue lettere a Louise Colet (1852), una «Prosodia della prosa»: “La bonne prose pourtant doit être aussi précise que le vers, et sonore comme lui” (Correspondances, II, Gallimard, Paris, 1980, p. 116) (La buona prosa pertanto dev’essere così precisa come il verso, e sonora come quello) e, ancora: “Une bonne phrase de prose doit être comme un bon vers, inchangeable, aussi rythmée, aussi sonore” (Una buona frase di prosa dev’essere come un buon verso, incommutabile, così ritmata, così sonora) (Correspondances, II, Gallimard, Paris, 1980, p. 135).

Il simbolista Menard, dunque, assume a riferimento uno scrittore del realismo francese, confermando ancora una volta la sua ambivalenza.

Tanto più che, invece, il suo amico Paul Valéry nel saggio “Propos sur la poésie” (in Variété I, 1924), illustrando la differenza tra i due modi dell’arte letteraria, la poesia e la prosa, cita una lettera di Racan (1589-1670) a Chapelain (1595-1674), al cui contenuto aderisce, nella quale Racan informa che Malherbe (1555-1628), il suo maestro, assimilava la prosa alla marcia e la poesia alla danza, in quanto la prima ha una direzione ed un fine preciso, mentre la seconda è fine a sé stessa, essendo un oggetto ideale, uno stato, una voluttà, un punto estremo dell’essere.

Nell’illustrare ciò, Racan afferma: “Je suis résolu de me tenir dans les préceptes de mon premier maître Malherbe, et de ne chercher jamais ni nombre, ni cadence à mes périodes, ni d’autre ornement que la netteté qui peut exprimer mes pensées” (Io sono risoluto ad osservare i precetti del mio primo maestro Malherbe, e a non cercare né numeri, né cadenze al mio periodare, né altri ornamenti oltre alla chiarezza necessaria ad esprimere i miei pensieri).

Coerentemente, per Valéry, la prosa si distingue dalla poesia in ciò, che la prima è rivolta a spiegare un pensiero, un ragionamento, onde, in essa, il merito, il contenuto, prevalgono sulla forma e la sua qualità essenziale è la chiarezza (la netteté); la seconda, invece, cioè la poesia, non deve illustrare nulla, essa è un’arte capace di suscitare emozioni, non nel senso ordinario del termine, quanto in senso poetico, cioè emozioni che derivano dalla capacità di suscitare stati d’animo che mettano in risonanza il lettore con l’armonia dell’Universo (vedremo che si tratta della “consistenza” di cui parla Edgar Allan Poe nel suo poema «Eureka», cui Valéry plaude ed aderisce).

In essa, dunque, la forma è l’elemento essenziale e prevale sul merito.

j)  Una replica a Luc Durtain (che aveva negato l’esistenza di tali leggi) illustrata con esempi di Luc Durtain (1909);

Borges, con arguzia, mette in campo un personaggio letterario francese, Durtain (1881-1959), che riunisce in sé alcune caratteristiche qui significative e pertinenti: abbraccia il pensiero unanimista di Jules Romains (1885-1972), che s’ispira all’idea del poeta collettivo, così negando la personalità dell’autore, idea che viene sviluppata nel racconto; compone una commedia in 3 atti, Le mari singulier (1937), tratta dalla novella El Curioso impertinente, di Cervantes.

Questa novella, una delle migliori di Cervantes, degna delle sue Novelle esemplari, viene da lui intercalata nei capitoli XXXIII-XXXV del Chisciotte, per cui, si realizza, in tal modo, anche un riferimento alla modalità compositiva, cara a Borges, del racconto nel racconto;

k)  Una traduzione manoscritta della Aguja de navegar cultos di Quevedo, col titolo La boussole des précieux;

Pierre Menard traduce l’opera di Quevedo, “La bussola per navigare da culterani”, un breve sonetto satirico contro i preziosismi linguistici di Gongora, così svelando alcune chiavi interpretative.

Intanto, dimostra di conoscere lo spagnolo barocco, che è anche quello di Cervantes; poi, dedica attenzione agli aspetti linguistici, rilevanti nelle traduzioni, come depone la particolarità, che potrebbe apparire ironica, della sua traduzione del titolo, in cui il termine “cultos” (culterani) viene reso con “précieux”, sicuramente privo dell’accezione denigratoria voluta da Quevedo.

Ma v’è una ragione sottostante: Luis de Gongora (1561-1627) fu il massimo esponente del culteranesimo o gongorismo, che si caratterizzò per l’uso di vocaboli insoliti, di giri di parole, di metafore e di iperboli, che celassero il concetto, rendendo la lingua distante da quella comune, una lingua elitaria, la cui comprensione esigeva una cultura qualificata.

Sotto l’aspetto formale, può stabilirsi un parallelismo tra lo stile letterario del barocco del XVI-XVII secolo ed il Simbolismo del XX secolo, al quale Pierre Menard aderiva.

Ciò giustifica la segreta approvazione del gongorismo – desumibile dall’uso del termine elogiativo précieux per esprimere le ricercatezze formali criticate da Quevedo.

Il comportamento di Menard, tra l’altro, si manifesta coerente con il suo carattere indeciso e sfuggente, che Borges, ironizzando, definisce nel racconto  “modestia quasi divina”.

l)  Una prefazione al catalogo dell’esposizione di litografie di Carolus Hourcade (1914);

Disegnatore litografista francese amico di Pierre Menard, Carolus Hourcade è un personaggio fittizio del racconto.

m)  L’opera Les problèmes d’un problème (1917);

Con quest’opera, Pierre Menard conferma interesse al tema dell’infinito, riguardato dalla visuale della divisibilità all’infinito dello spazio.

Borges sin da piccolo era stato iniziato al problema dal padre e, con riferimento ad esso, ha scritto due saggi: “La perpetua corsa di Achille e della tartaruga” e  “Metempsicosi della tartaruga”, entrambi in “Discussione” (1932); quest’attribuzione sottolinea, di nuovo, l’interesse di Pierre Menard per la matematica, congiuntamente a quello per gli scacchi, per il linguaggio e per la traduzione.

Coerenti appaiono le citazioni di Russel, di Descartes e di Leibniz, filosofi-matematici che diedero loro contributi alla spiegazione del paradosso di Zenone, così come riferito da Borges stesso nei due saggi citati.

Alla seconda edizione del suo libro (anche qui una riscrittura, che richiama il concetto di abbandono e ripresa di un’opera), Pierre Menard prepose un’epigrafe, tratta dalla “Lettre de Mr. Leibniz a Mr. Foucher Chanoine de Dijon, sur quelques Axiomes de Philosophie” (1693), del seguente tenore: “Ne craignez point, Monsieur, la tortue” (Non temete affatto, Signore, la tartaruga).

Nella citata corrispondenza Leibniz-Foucher, il grande filosofo e matematico tratta la questione della divisibilità all’infinito di tutte le grandezze, di ogni particella di materia.

Ritorna, dunque, ancora il tema dell’infinito e la sua forte affinità con l’arte combinatoria e con la formazione del linguaggio, il quale presenta anche un altro aspetto di infinitezza, quella concettuale, derivante, come s’è visto, dall’infinita possibilità di combinazione dei concetti semplici o primitivi in concetti complessi.

E’ questa duplice infinitezza del linguaggio, combinatoria e concettuale, che Borges richiama con il riferimento all’opera di Pierre Menard.

Il paradosso di Zenone è però anche suscettibile di un’interpretazione allegorica, che chiama in causa la traduzione.

I due termini della serie, Achille e la tartaruga (che, essendo avanti, è prima nella serie), possono simboleggiare il testo letterario originale (il primo, la tartaruga) e la sua traduzione (il secondo, il testo derivato, Achille).

Secondo il traslato del paradosso di Zenone, i due testi risulterebbero separati da una distanza incolmabile, onde, avere paura della tartaruga significherebbe avere paura dell’originale, che è irraggiungibile, quando si compie una traduzione o una riscrittura, come nel caso del Chisciotte di Pierre Menard.

V’è, però, da considerare che la tartaruga è prima per effetto di una generosa e volontaria concessione di Achille, che le ha accordato un vantaggio nella gara.

In verità, è Achille, cioè il traduttore (il secondo termine della serie), che, detenendo la facoltà di scelta, decide le sorti della gara stessa.

Non c’è ragione, dunque, di avere paura della tartaruga.

Trasferendo al sistema letterario, sono il traduttore o il lettore che, interpretando e riscrivendo il testo originale, hanno potere di conferirgli i significati consoni alla loro cultura, alla cultura della loro epoca.

Quest’idea, secondo cui s’inverte il rapporto gerarchico e temporale tra testo originale (il primo e antecedente) e traduzione (il secondo e successivo), è espressa da Borges nel saggio intitolato “Kafka e i suoi precursori” (in “Altre inquisizioni”, 1951); in esso Borges afferma che ogni autore crea i suoi precursori, nel senso che il significato delle opere del precursore muta in ragione del nuovo e successivo clima culturale creato dalle opere dell’autore successivo.

E’ il successivo che modifica il precedente. Questo argomento, si vedrà, è molto fecondo nel racconto in esame.

n)  Un’analisi minuziosa dei «costumi sintattici» di Toulet (1921);

Poeta simbolista francese, Paul-Jean Toulet (1867-1920) è autore, tra l’altro dell’opera “Le mariage de Don Chisciotte”.

L’analisi minuziosa dei suoi costumi sintattici e l’affermazione che il censurare e il lodare costituiscono operazioni sentimentali, che non hanno nulla a che vedere con la critica, assimilano Pierre Menard al narratore e al personaggio di Hilario Lambkin Formento, nel citato racconto “Naturalismo al Día”, ìlare figura di critico naturalista descrittivista, come già rilevato.

Borges sottolinea qui, nuovamente, la duplicità di Pierre Menard, come aveva già fatto per il narratore.

E’ un’ambivalenza che Borges rileva in Valéry e che, in qualche modo, è del Simbolismo stesso: entrambi sono platonici quando fanno riferimento alla capacità della poesia di attingere l’Universale dal particolare, di rivelare l’essenza più profonda e misteriosa delle cose; sono aristotelici in estetica, quando trattano questioni di forma e di stile, invocando rigore matematico.

Perciò, Borges richiama il personaggio del critico realista descrittivista, che, appunto, sottolinea la prevalenza dell’aspetto formale.

o)  Una trasposizione in alessandrini del Cimetière marin di Paul Valéry (1928);

Ancora una traduzione di Pierre Menard, nella stessa lingua ma in diverso metro; una traduzione che contrasta con la scelta precisa e consapevole dell’autore in tema di metrica.

Infatti, Paul Valéry, nel saggio intitolato “Au sujet du «Cimetière marin»” (nella raccolta “Variété III”, Gallimard, Paris, 1936, pp. 68-69) così motiva la sua scelta del metro decasillabico, pur ritenuto “povero e monotono, … poca cosa in confronto all’alessandrino”: “Le démon de la généralisation suggérait de tenter de porter ce Dix à la puissance du Douze. Il me proposa une certaine strophe de six vers et l’idée d’une composition fondée sur le nombre de ces strophes, et assurée par une diversité de tons et de fonctions à leur assigner.” (Il demone della generalizzazione suggeriva di tentare di portare questo Dieci alla potenza del Dodici. Egli mi propose una certa strofa di sei versi e l’idea d’una composizione fondata sul numero di queste strofe, e garantita da una diversità di tono e di funzione da assegnar loro).

E, ancora : “Il fallait que mon vers fût dense et fortement rythmé. Je savais que je m’orientais vers un monologue aussi personnel, mais aussi universel que je pourrais le construire. Le type de vers choisi, la forme adoptée pour le strophes me donnaient des conditions qui favorisaient certains «mouvements», permettaient certains changements de ton, appelaient certain style… Le «Cimetière Marin» était conçu.” (Occorreva che il mio verso fosse denso e fortemente ritmato. Io sapevo che stavo orientandomi verso un monologo così personale, ma così universale che avrei potuto costruirlo. Il tipo di verso scelto, la forma adottata per le strofe mi offrivano delle condizioni che favorivano certi «movimenti», mi permettevano certi cambiamenti di tono, richiamavano certo stile… Il «Cimitero Marino» era concepito).

Il punto di partenza del poema era, dunque, una «musica interiore», fondata sul verso e sulla strofa, che cantava nello spirito del poeta ancor prima ch’egli avesse chiara l’idea di ciò che esso avrebbe poi espresso concettualmente.

In altri termini, l’elemento musicale precedeva quello intellettuale, l’idea; la forma prevaleva sul contenuto.

La scelta precisa dell’autore di portare il dieci (il verso decasillabico) alla potenza del dodici (il verso alessandrino) – “che tre o quattro generazioni di grandi artisti hanno prodigiosamente elaborato” – congiuntamente con la forma della strofa, creavano le condizioni per certi «movimenti» e permettevano certi cambiamenti di tono, che costituivano elementi essenziali e propri della concezione di quell’opera poetica.

Ne consegue che la traduzione di Menard nell’altro metro (l’alessandrino), intervenendo su elementi essenziali della concezione dell’opera, disfa l’obiettivo poetico del poema stesso.

In tal modo, Pierre Menard si contrappone al suo amico Paul Valéry, contrastandone la volontà, così come avverrà nuovamente con la sua opera seguente.

p)  Un’invettiva contro Paul Valéry (Quest’invettiva – sia detto tra parentesi – è giusto il contrario di ciò che Menard pensava di Valéry. Quest’ultimo l’intese appunto in tal modo, e l’antica amicizia tra i due non corse pericolo);

Insieme con il tono ironico della parentetica, non sfugge un tratto peculiare del carattere di Pierre Menard: il contenuto dei suoi scritti non rispecchia il suo autentico pensiero; egli, dunque, non è affidabile, come s’è visto essere anche per il suo amico narratore.

Si noti, comunque, che è la seconda volta che Pierre Menard contesta Valéry.

Questa contrapposizione, vedremo, diverrà massima quando comprenderemo le ragioni che lo hanno indotto a scegliere il Don Chisciotte di Cervantes per produrre la sua opera “invisibile”: essa risulterà, dunque, di grande importanza nell’interpretazione del significato del racconto.

q)  Una «definizione» della contessa di Bagnoregio, nel «vittorioso volume» – l’espressione è di un altro collaboratore, Gabriele D’Annunzio – che questa signora pubblica annualmente per rettificare le inevitabili falsificazioni del giornalismo…;

Come già notato prima, emergono due aspetti significativi: da un lato, la critica di un sistema di circoli culturali, aggregati intorno a persone di potere economico e sociale, ma di scarso o nullo prestigio culturale, i cui accoliti guerreggiavano tra loro senza decoro; dall’altro, la discutibilità morale dei mecenati, costretti a difendersi da attacchi della stampa, che rivelavano l’evidente inconsistenza della loro autorevolezza e prestigio in società.

r)  Un ciclo di ammirabili sonetti per la baronessa di Bacourt (1934);

Il narratore ritorna sull’atteggiamento adulatorio di Pierre Menard nei confronti della sua mecenate;

s)  Una lista manoscritta di versi che debbono la loro efficacia alla punteggiatura;

Ancora un’insistenza sull’atteggiamento critico di Pierre Menard allo stile simbolista, la cui poesia si caratterizza per il verso libero e per l’assenza della punteggiatura.

Ma anche una nuova sottolineatura dell’ambivalenza di Pierre Menard, platonico quando denota affezione per il linguaggio evocativo del simbolismo, aristotelico ogni qual volta insista su aspetti formali del linguaggio e della letteratura, quando si comporta da critico realista naturalista.

Infine, il narratore dichiara di non potere descrivere il protagonista: “M’ero anche proposto di abbozzare un ritratto di Pierre Menard. Ma come arrischiarmi a competere con le auree pagine che sta preparando, a quanto mi dicono, la baronessa di Bacourt, o con la matita delicata e puntuale di Carolus Hourcade?”.

Riappare il tono ironicamente encomiastico del narratore verso la mecenate baronessa di Bacourt e verso l’amico di Pierre Menard, il litografista Carolus Hourcade.

Ma ciò che qui interessa, è notare come Borges non fornisca alcun elemento descrittivo della vita e della psicologia di Pierre Menard, all’infuori della presentazione delle sue opere letterarie.

E’ lo stesso metodo, come evidenzia Borges stesso, adottato da Cervantes per descrivere Don Chisciotte, con la variante che il ritratto di Don Chisciotte deriva dalla descrizione delle sue gesta, quello di Pierre Menard, dalla sua letteratura.

La capacità di Cervantes di farci conoscere Don Chisciotte attraverso la descrizione, con dovizia di dettagli, di duecento episodi perigliosi, ha fortemente affascinato Borges, che nella citata conferenza, intitolata “Mio intimo signor Cervantes” (1968) considera prodigioso, quasi un miracolo raggiunto da pochissime opere letterarie di finzione, quello compiuto da Cervantes: farci cogliere tutta la complessità e l’ambiguità del personaggio, pur avendoci detto pochissimo di lui.

E’ possibile qui rinvenire un punto di contatto tra Pierre Menard e Alonso Quijano: entrambi sognano imprese impossibili.

Quella di Pierre Menard è la «donchisciottesca» impresa letteraria di riprodurre alcune pagine del Chisciotte che coincidano – parola per parola e riga per riga – con quelle di Miguel de Cervantes.

Probabilmente, Pierre Menard ha sognato tale impresa, come Alonso Quijano ha sognato le imprese (non letterarie) di Don Chisciotte.

Pierre Menard anticiperebbe, in tal modo, tratti dell’autore-sognatore, che corrisponderà alla fase successiva della concezione borgesiana dell’autore.

Ma ritorniamo all’esame dell’opera visibile di Pierre Menard.

Il narratore l’ha definita “di facile e breve enumerazione”.

In verità, v’è, l’opera poetica, consistente in pochi sonetti simbolisti [lett. a), lett. r), lett. s)], alla quale si affianca una produzione in prosa, che, in gran parte, consiste in traduzioni [lett. g), lett. k), lett. m), lett.o), e la nota in calce, che cita la traduzione letterale della traduzione letterale che fece Quevedo della Introduction à la vie dévote di san Francesco di Sales]; in altra parte, richiama aspetti formali della prosa o addirittura aspetti matematici o combinatori del linguaggio [lett. c), lett. d), lett. e), lett. f), lett. g), lett. h), lett. i), lett.j), lett. n)], e, infine, ancora in prosa, una monografia sul dizionario poetico [lett. b)] e un’invettiva contro Paul Valéry.

Si tratta di una produzione relativamente eterogenea, che lascia trasparire una forma mentis più logico-razionale che poetica, tendente alla sistematizzazione, all’organizzazione, all’ordine, piuttosto che alla libertà della fantasia creativa.

Inoltre, emerge una tendenza a non esprimere idee proprie ma di altri (traduzioni) e a esprimersi in modo difforme dal proprio genuino pensiero (mancanza di coraggio delle proprie idee).

Infine, prevalgono di gran lunga le opere in prosa (e tra queste le traduzioni), più che quelle poetiche.

Il narratore lo definisce “un simbolista di Nîmes, devoto essenzialmente di Poe, che generò Baudelaire, che generò Mallarmé, che generò Valéry, che generò Edmond Teste.”

Appare singolare che in una serie di autori Borges introduca un personaggio di Valéry, Edmond Teste.

Evidentemente, vuole stabilire un parallelo tra il suo personaggio e quello di Paul Valéry.

Nella prefazione alla prima edizione di “Storia universale dell’Infamia” (27/5/1935), Borges afferma: “Nessuno può negare che i frammenti attribuiti da Valéry al suo piuccheperfetto Edmond Teste valgano palesemente meno che quelli della moglie e degli amici del Signor Teste.”

Di nuovo: “Leonardo è un abbozzo di «Edmond Teste», limite o semidio a cui tende Paul Valéry.” (da “Biografia sintetica di Paul Valéry”, in “Testi prigionieri”, 22/1/1937, Adelphi, 1998, pp. 57-58).

Nel saggio “Valéry come Simbolo”, in “Altre Inquisizioni” (1945), Borges dichiara: “Valéry ha creato Edmond Teste; codesto personaggio sarebbe uno dei miti del nostro secolo se tutti, intimamente, non lo giudicassimo un mero Doppelgänger di Valéry. Per noi, Valéry è Edmond Teste.”

L’opera in prosa di Paul Valéry “Monieur Teste” (1926) è una raccolta di prose filosofiche, comprendente “La soirée avec Monsieur Teste” (1896), “Lettre de M.me Émilie Teste” (1924), “Lettre d’un ami” (1924), “Extraits du Logbook de Monieur Teste” (1925).

Edmond Teste, personaggio immaginario dell’opera, è un asceta dell’intelligenza, il cui unico scopo è la scoperta delle leggi dello spirito.

L’opera riflette l’esigenza di razionalità di Valéry e la sua ambizione di stabilire in se stesso il puro dominio dello spirito.

Questa esigenza determinò  l’abbandono quasi ventennale della letteratura da parte di Valéry, per una fase di ricerca e di meditazione.

Nella prefazione alla seconda traduzione in inglese de “La soirée avec Monsieur Teste”, Paul Valéry scrive: “Ce personnage de fantaisie dont je devins l’auteur au temps d’une jeunesse à demi littéraire, a demi sauvage ou… intérieure, a vécu, semble-t-il, depuis cette époque effacée, d’une certaine vie, – que ses réticences plus que ses aveux ont induit quelques lecteurs à lui prêter.

Teste fut engendré, – dans une chambre où Auguste Comte a passé ses premières années, – pendant une ère d’ivresse de ma volonté et parmi d’étranges excès de conscience de soi.

J’étais affecté du mal aigu de la précision. Je tendais à l’extrême désir insensé de comprendre, et je cherchais en moi les points critiques de ma faculté d’attention.

Je faisais donc ce que je pouvais pour augmenter un peu les durées de quelques pensées. Tout ce qui m’était facile m’était indifférent et presque ennemi. La sensation de l’effort me semblait devoir être recherchée… ” (Questo personaggio di fantasia di cui divenni l’autore al tempo d’una giovinezza a metà letteraria, a metà selvaggia o… interiore, è vissuto, sembra, dopo questa epoca dimessa, d’una certa vita, – che le sue reticenze più che le sue confessioni hanno indotto alcuni lettori a prestargli.

Teste fu generato, – in una stanza nella quale Auguste Comte ha trascorso i suoi primi anni, – durante un periodo di ebbrezza della mia volontà e tra strani eccessi di coscienza di sé.

Io ero affetto dal male acuto della precisione. Tendevo all’estremo desiderio insensato di comprendere, e cercavo in me i punti critici della mia facoltà d’attenzione.

Io facevo dunque quanto potevo per accrescere un po’ la durata di alcuni pensieri. Tutto ciò che mi riusciva facile mi era indifferente e quasi nemico. La sensazione dello sforzo mi sembrava dover essere ricercata…).

Dunque, Borges, sebbene, al pari di Cervantes con Don Chisciotte, non descriva mai in modo diretto la psicologia di Menard, tuttavia, stabilendo uno stretto rapporto di affinità tra questi ed il personaggio di Valéry, che, invece, è ampiamente descritto dal suo autore, integra gli elementi di conoscenza desumibili dalla sua opera visibile, la quale, già in sé, costituisce un “diagramma della sua storia mentale”.

Menard presenta una forma mentis molto affine a quella di Paul Valéry e del suo personaggio Edmond Teste, è anch’egli una «machine à penser» (una macchina per pensare), un «crible machinal» (un setaccio meccanico).

Valéry chiude lo scritto finale di “Monsieur Teste”, intitolato “Fin de Monsieur Teste” con queste parole: «Fin intellectuelle. Marche funèbre de la pensée».

Ancora un altro aspetto va evidenziato per la sua rilevanza in merito al parallelo Menard-Teste-Valéry: quello della ricerca della lingua perfetta.

Dall’opera visibile di Menard, abbiamo visto, traspare un forte interesse per la costruzione della lingua perfetta, che, riposando su regole matematiche, risulti immune dall’indeterminatezza della lingua comune.

Sin da giovane, Valéry ha subìto la fascinazione del linguaggio della matematica, che gli è sembrato il mezzo di espressione più immediato e più fedele dell’attività e, dunque, della stessa natura dell’esprit.

I suoi Cahiers, ai quali egli per cinquant’anni ha confidato, mattina per mattina, all’alba, le sue riflessioni più disparate in ordine ai suoi sconfinati e variegati interessi e, soprattutto, quelle riguardanti lo sforzo di dominio di sé stesso nel processo produttivo, sono disseminati di tentativi di modellizzazione matematica dei fatti mentali.

L’idea di Valéry, che sta alla base del suo sistema, consiste nella ricerca di “une mathématique cachée” di quella che chiama le “propriétés de l’esprit”. (Cahiers, «La Pléiade», Gallimard, Paris, 1973, tomo 1, p. 846).

Egli ha cercato di costruire un linguaggio suo per esprimere la percezione dei fenomeni e dei processi mentali: “Je cherche quels sont les mots ou expressions que j’eusse employés ou forgées pour m’exprimer mes perceptions de choses mentales si l’argot abstrait – les mots connaissance, conscience, esprit, etc. – m’eussent été inconnus. Tous ces termes (et la plupart des autres) ne sont que des expédients… Ils sont plus propres à s’entendre grossièrement avec autrui qu’avec soi-même.” (io cerco quali siano le parole o le espressioni che avrei impiegato o forgiato per esprimere le mie percezioni delle cose mentali se il gergo astratto – le parole conoscenza, coscienza, potenza di trasformazione, etc. – mi fossero state sconosciute. Tutti questi termini (e la maggior parte degli altri) non sono che espedienti… essi sono più adatti ad intendersi grossolanamente con gli altri che con sé stesso). (Cahiers, op. cit., p. 657).

E, di nuovo: “Mon idée fut de concevoir une langue artificielle fondée sur le réelle de la pensée, langue pure, système de signes …” (La mia idea fu di concepire una lingua artificiale fondata sul pensiero autentico, una lingua pura, un sistema di segni …).

Vedremo come, per Valéry, la questione del linguaggio, della forma, sia la questione centrale della riflessione filosofica; la forma, per Valéry, consiste nella capacità di dare un ordine e un’espressione che riassumano e compongano l’insieme dell’esperienza personale interna ed esterna; l’imprecisione del linguaggio comune, utilizzato dalla filosofia e dalla metafisica, inficia queste discipline, rendendole sostanzialmente inutili.

 

3.2  L’opera «invisibile» di Pierre Menard.

Così come nel racconto “Tlön” al passaggio dalla prima parte alla seconda si modifica il tono e lo stile del narratore, anche qui subentra una “vertigine stupita”, un’ammirazione indicibile per l’opera sotterranea di Pierre Menard: “l’infinitamente eroica, l’impareggiabile. Che è anche – ahi, limiti dell’uomo! – l’incompiuta”. Ed, ancora: “Quest’opera, forse la più significativa del nostro tempo, …”.

Il narratore ci aveva presentato in apertura (prima riga del racconto) Pierre Menard come romanziere.

In verità, l’opera visibile, come s’è visto, non annovera alcun romanzo; il romanzo di Pierre Menard consta, dunque, dei capitoli IX e XXXVIII della prima parte del Don Chisciotte, e di un frammento del capitolo XXII.

Prevenendo ovvie osservazioni, il narratore ammette subito che l’impresa di Menard “ha tutta l’aria d’una assurdità”, che egli si accinge a giustificare.

Ma, intanto, in coerenza con il carattere anodino che lo connota, ha introdotto un’ambiguità: nell’indicare le parti che compongono il romanzo di Pierre Menard, non ha chiarito quale sia il frammento del capitolo XXII e, soprattutto, se si tratti del capitolo della prima parte del romanzo di Cervantes o di quello della seconda parte.

Peraltro, come si avrà modo di vedere, mentre nel seguito del racconto vengono esaminati sia il capitolo XXXVIII, sia il capitolo IX, nessun ulteriore cenno è dedicato al capitolo XXII, la cui identificazione rimane, dunque, dubbia.

La questione non è irrilevante, in quanto il contenuto dei capitoli del Don Chisciotte “prodotti” da Menard  ha, vedremo, una correlazione con il significato del racconto.

Questo contiene, ad un certo punto del suo sviluppo, una parentetica, apparentemente chiarificatrice di tutt’altro suo aspetto, che, invece, sembrerebbe fornire una chiave per la risoluzione del dubbio appena sollevato.

Ecco il testo: “Questo convincimento, sia detto di passata, lo indusse a espungere il prologo autobiografico della seconda parte. …”.

Appare logico che, se Menard si fosse limitato a “produrre” solo capitoli della prima parte del Don Chisciotte, non sarebbe in alcun modo venuta in causa una questione relativa al prologo autobiografico della seconda parte e alla decisione sulla sua inclusione o meno nell’opera da lui “prodotta”; onde, dovrebbe potersi desumere che l’accenno al capitolo XXII vada correttamente riferito al capitolo XXII della seconda parte: altrimenti, la menzione del prologo di quella stessa parte risulterebbe del tutto ingiustificata.

Torniamo adesso al testo del racconto.

L’impresa di Menard – ci dice il narratore – fu ispirata da due testi di valore ineguale.

Il primo, è un frammento filologico di Novalis, il numero 2005 dell’edizione di Dresda (Novalis, Fragmente, Wolfgang Jess Verlag in Dresden, 1929).

Novalis (1772-1801), pseudonimo di Friedrich von Hardenberg, poeta, scrittore e filosofo, esponente di spicco dell’idealismo romantico tedesco, dell’idealismo «magico», affermava il predominio dello spirito sul corpo e sul mondo e l’armonia tra spirito e natura, tra infinito e finito.

Borges tradusse nel 1934 numerosi suoi “Frammenti”, tra cui quello qui citato, nel quale Novalis abbozza il tema della totale identificazione con un determinato autore: “Posso affermare di aver compreso un autore quando giungo ad agire in sintonia col suo spirito; quando, senza diminuire la sua individualità, posso tradurlo e trasformarlo alla mia maniera” (Borges: Novalis,  Fragmentos, in Obras, reseñas y traducciones inéditas, Diario Crítica, 1933-1934).

Novalis, in concordanza con l’ermeneutica romantica e con la sua esaltazione dell’io, riteneva possibile entrare in profonda sintonia con lo spirito di un autore affine, capirne le intenzioni e, in tal modo, comprendere il senso dell’opera letteraria.

Vedremo, tuttavia, che Menard non ambisce a ciò.

L’altro testo, non è solo di ineguale valore, come dichiarato dal narratore, è anche di opposto significato.

Infatti, se nel primo caso esiste un “io” romantico che crea l’opera secondo le sue intenzioni, qui è l’ambientazione o il contesto storico a prevalere, delineando i soggetti, siano essi personaggi o autore.

Appare, dunque, poco comprensibile come due testi di opposto significato abbiano potuto ispirare l’impresa di Menard.

Ma non è l’unica incongruenza del narratore.

Egli, infatti, esprime in questa parte giudizi molto negativi sul secondo dei due testi che avrebbero ispirato Menard, e ne attribuisce di analoghi allo stesso Menard. “L’altro è uno dei libri parassitari che ambientano Cristo in un boulevard….” “Menard aveva in orrore simili mascherate, buone solo – diceva – a procurarci il volgare piacere dell’anacronismo”.

Rimarremo, dunque, sorpresi quando, a chiusura di racconto, lo stesso narratore affermerà con tono solenne: “Menard (forse senza volerlo) ha arricchito mediante una tecnica nuova l’arte incerta e rudimentale della lettura: la tecnica dell’anacronismo deliberato e delle attribuzioni erronee”.

Il narratore continua a dimostrarsi assolutamente ambiguo.

Tertium datur: infine, indica una terza fonte ispiratrice dell’impresa di Menard.

E’ il romanzo di Alphonse Daudet, anch’egli nato a Nîmes, “Aventures prodigieuses de Tartarin de Tarascon” (1872), nel quale l’autore riunisce in un unico personaggio, Tartarin, i caratteri di Don Chisciotte e di Sancio Panza.

Il capitolo VI della prima parte del romanzo di Daudet è intitolato: “I due Tartarin. – Dialogo memorabile tra Tartarin-Chisciotte e Tartarin- Sancio”.

Il narratore, tuttavia, ci avverte che Menard, sebbene avesse trovato il proposito di Daudet più interessante dei due testi dianzi citati, tuttavia, lo giudicava d’esecuzione contraddittoria e superficiale.

Ed ecco, finalmente, che il narratore può giungere al cuore della questione: Menard non dedicò la vita a scrivere un Chisciotte contemporaneo, come lo avrebbero indotto a fare le citate fonti d’ispirazione.

Egli “non volle comporre un altro Chisciotte – ciò che è facile – ma il Chisciotte.

Menard, come abbiamo visto per Valéry, aborriva le imprese facili: “Tout ce qui m’était facile m’était indifférent et presque ennemi. La sensation de l’effort me semblait devoir être recherchée… ” (dalla prefazione alla seconda traduzione in inglese de “La soirée avec Monsieur Teste”, su citata) (Tutto ciò che mi veniva facile mi era indifferente e quasi nemico. La sensazione dello sforzo mi sembrava dover essere ricercata).

A ciò segue il chiarimento: Menard non pensò mai di trascrivere meccanicamente l’originale, cioè di copiarlo.

Egli nutriva l’ambizione, che il narratore aggettiva come mirabile, di “produrre” alcune pagine che coincidessero –parola per parola e riga per riga – con quelle di Miguel de Cervantes.

A questo punto iniziano le affermazioni autografe di Pierre Menard: il narratore riferisce quanto Menard gli ha scritto.

Menard stabilisce un parallelo importante tra sé stesso e i metafisici di Tlön.

Egli, al pari di quelli, cerca la sorpresa, lo stupore: “Mi propósito es meramente asombroso” (Il mio proposito è soltanto quello di sorprendere). Ed in Tlön: “Los metafísicos de Tlön no buscan la verdad ni siquiera la verosimilitud: buscan el asombro” (I metafisici di Tlön non cercano la verità e nemmeno la verosimiglianza: cercano la sorpresa).

Menard prosegue: “El término final de una demostración teológica o metafísica – el mundo externo, Dios, la causalidad, las formas universales – no es menos anterior y común que mi divulgada novela.” (Il termine finale di una dimostrazione teologica o metafisica – il mondo esterno, Dio, la causalità, le forme universali – non è meno anteriore e comune del romanzo che voglio divulgare.”

Dunque, anche tra l’oggetto finale della riflessione della metafisica o della teologia e l’oggetto finale della sua attività, il romanzo che si propone di divulgare, Menard stabilisce una corrispondenza.

L’unica distinzione risiede nelle tappe intermedie, in quanto, quelle del ragionamento dei filosofi e dei teologi vengono divulgate, mentre egli ha cancellato le sue “En efecto, no queda un solo borrador que atestigüe ese trabajo de años” (In effetti, non rimane una sola minuta che attesti questo lavoro di anni).

In altri termini, sia il proposito di Menard (sorprendere, meravigliare – terminus a quo), sia l’oggetto della sua attività (la composizione de il Chisciotteterminus ad quem) si sovrappongono, entrambi, al proposito dei metafisici di Tlön e all’oggetto dei loro studi: cercare la sorpresa.

Ma, i metafisici di Tlön giudicano la metafisica un ramo della letteratura fantastica, dunque, anche l’oggetto dell’attività di Menard, la sua opera invisibile, è una finzione, una “broma mal escuchada”(uno scherzo mal interpretato), come la traduzione letterale della traduzione letterale di Quevedo della Introduction à la vie devote di san Francesco di Sales, attribuita a Menard da Madame Henri Bachelier e di cui non è stata rinvenuta traccia nella sua biblioteca.

D’altronde, non può essere diversamente, considerato che l’attività di Menard è impossibile e, conseguentemente, irreale: “In Pierre Menard, autore del Chisciotte è irreale il destino che s’impone il protagonista.” (dalla Premessa a “Il giardino dei pensieri che si biforcano”, op. cit.).

Pierre Menard è, in primo luogo, un sognatore e dentro il suo sogno, cioè dentro la finzione, egli diviene autore-lettore.

Occorre, ancora, formulare un rilievo: la circostanza che Menard abbia cancellato le tracce del suo lavoro intermedio impedisce di considerare l’opera da lui compiuta come un palinsesto.

Ciò, appare in contrasto con altra affermazione che lo stesso narratore renderà alla fine del racconto.

Il sogno di Menard consente di stabilire un parallelo con quello di Alonso Quijano, che, nel folle sogno, diviene il cavaliere Don Chisciotte.

Alonso Quijano, agli inzi del XVII secolo, sogna di compiere imprese epico-cavalleresche e di combattere, sogna l’azione (le armi); Menard, nel XX secolo, dopo l’idealismo, sogna di riscrivere un libro già scritto (le lettere).

Vedremo, comunque, nella parte dedicata al significato del racconto, in che senso il proposito di Menard risulti effettivamente sorprendente.

A questo punto, il narratore illustra il metodo adottato da Pierre Menard per raggiungere il suo obiettivo.

In un primo momento, immaginò il metodo dell’immedesimazione, quello suggerito dal frammento di Novalis: immedesimarsi a tal punto in Miguel de Cervantes ed entrare così in  sintonia con lui da poter rivivere le sue intenzioni, ciò che gli avrebbe consentito la riscrittura, autonoma e libera, di parti del Chisciotte. Scartò questo metodo perché facile.

Nuovamente affiora l’affinità con Valéry, che, come abbiamo visto, gli aveva già fatto scartare l’ipotesi di scrivere un nuovo Chisciotte.

Egli voleva, invece, restare Pierre Menard, poeta simbolista francese del XX secolo, con le sue esperienze e la sua formazione, e giungere alla riscrittura di parti del Chisciotte in modo autonomo, cioè crearlo ex novo, però identico nel testo.

Ovviamente, ammessa per un attimo quest’ipotesi impossibile, ne risulterebbe un Chisciotte  invisibile, perché la sua identità testuale a quello preesistente, quello di Cervantes, non consentirebbe di distinguerlo.

Qui Borges introduce un elemento importante a fini intepretativi: fa dire a Menard, nella lettera al narratore, “la mia impresa non è difficile. Mi basterebbe essere immortale per condurla a termine”.

Cos’è la letteratura, aveva detto Valéry, se non una sorta di estensione e di applicazione di alcune proprietà del linguaggio? E poi: “Non è forse il linguaggio il capolavoro dei capolavori letterari, giacché ogni creazione letteraria si riduce a una combinazione delle risorse di un determinato vocabolario, secondo forme stabilite una volta per tutte?” (Paul Valéry, “Première leçon du cours de poétique, 1937, recensita da Borges il 10/6/1938 su “El Hogar” e raccolta in “Testi prigionieri”, Adelphi, 1998, pp. 234-235).

Se la letteratura è la risultante dell’arte combinatoria delle lettere dell’alfabeto a dare le parole, delle parole a dare i concetti semplici o primitivi e di questi a dare i concetti complessi, e tutto ciò era ben noto a Pierre Menard, che, come abbiamo visto, aveva scritto, in merito, monografie sul linguaggio universale e sul pensiero di Descartes, di Leibniz, di John Wilkins e di Raimondo Lullo, allora Menard sapeva bene che per sperimentare le infinite combinazioni di tutti i citati elementi, finché ne risultasse il testo letterale del Chisciotte di Cervantes, sarebbe occorso un tempo infinito, da lui attingibile solo con l’immortalità.

Perciò poté condurre a termine un’impresa limitata a soli due capitoli e a frammenti di un terzo.

Ma, come approfondiremo, costituendo ciò il nucleo centrale del significato del racconto, per Borges “Se la letteratura non fosse che un’algebra verbale, chiunque potrebbe produrre qualunque libro, a forza di tentare variazioni.” (da “Nota su (intorno a) Bernard Shaw”, 1951, in “Altre Inquisizioni”).

A questo punto, il narratore adotta un tono poetico e si abbandona ad una confessione malinconica: “Confesserò che mi piace immaginare che la terminò, che leggo il Chisciotte – tutto il Chisciotte – come se l’avesse pensato Menard.”

E prosegue con un commosso ricordo velato di nostalgica fantasia: mentre leggeva il capitolo XXVI del Chisciotte, capitolo non “tentato” da Pierre Menard, si soffermò sulla frase poetica “Le ninfe di fiumi, la dolorosa e umida Eco” e riconobbe lì lo stile e la voce di Menard.

Borges fornisce, così, un indizio utile alla comprensione del tipo di impresa effettivamente svolta da Menard: egli leggeva il Don Chisciotte.

Menard è autore-lettore del Don Chisciotte, questa attività rende compatibile i due aspetti altrimenti inconciliabili: l’identità letterale del testo e la differenza di significato.

D’altronde, alla fine del racconto, il narratore afferma: “Menard (forse senza volerlo) ha arricchito mediante una tecnica nuova l’arte incerta e rudimentale della lettura….”

Il Chisciotte letto, cioè interpretato, da Menard nel XX secolo, attraverso la sua esperienza, la sua cultura, la sua sensibilità, ancorché letteralmente identico, viene recepito dal lettore con significati diversi rispetto a quelli conferitigli originariamente dall’autore: il lettore diviene, così, lettore-autore, interprete.

Come abbiamo visto, nel saggio intitolato “Kafka e i suoi precursori” (in “Altre inquisizioni”, 1951), Borges afferma: “Il fatto si è che ogni scrittore crea i suoi precursori. La sua opera modifica la nostra concezione del passato, come modificherà il futuro.” ); in esso, Borges afferma che ogni autore crea i suoi precursori, in quanto il significato delle opere del precursore si modifica in ragione del nuovo e successivo clima culturale creato dalle opere dell’autore successivo.

Il narratore, peraltro, mentre immagina di ascoltare Menard (riconobbi la sua voce) che legge il Don Chisciotte, ricorda di avere discusso con lui, in occasione della lettura, di questioni ermeneutiche, riferite all’uso degli aggettivi (fisico e morale), ciò che implica, insieme agli aspetti estetici, anche più profondi significati filosofici.

Infatti, se due diversi autori contemporanei – Cervantes e Shakespeare – indipendentemente l’uno dall’altro, fanno uso della medesima strategia retorica (“la dolorosa y húmida Eco” e “a malignant and turbaned Turk”), è perché, platonicamente, la letteratura è reminiscenza, simulacro di una verità scritta per sempre.

In definitiva, Borges, da un lato, ha indicato la natura dell’attività posta in essere da Pierre Menard (leggere il Chisciotte), dall’altro, ha anche stabilito una stretta connessione tra lettura ed interpretazione del testo, così prefigurando una teoria della ricezione, che sarebbe stata poi sviluppata da Hans Robert Jauss e da Wolfgang Iser circa trent’anni dopo.

Dopo aver chiarito che Menard volle comporre il Chisciotte o almeno alcune pagine di esso letteralmente identiche, il narratore si pone la questione del perché della scelta del Chisciotte.

Come mai un poeta simbolista francese del XX secolo, omologo di Edmond Teste, avrebbe coltivato l’ambizione di creare ex novo, ma identico alla lettera, un romanzo spagnolo del XVII secolo.

Il narratore riferisce il chiarimento sul punto fornitogli dallo stesso Menard con la lettera già citata.

Chiarimento che, in verità, non chiarisce granché.

Esso servirà, però, a Menard per esporre il  suo punto di vista sulla natura del romanzo cervantino, da cui, vedremo, può intendersi la natura del rapporto tra Menard e Borges stesso.

Il Chisciotte – spiega Menard – m’interessa profondamente, ma non mi sembra … come dire? … inevitabile”.

Il Chisciotte – sostiene ancora Menard – è un’opera innecessaria, contingente, per cui non si corre il rischio, scrivendolo, di incorrere in una tautologia.

La spiegazione è, a ben guardare,  apodittica: è soltanto un’affermazione indimostrata.

Essa si compone di due parti: la prima, dichiara, appunto, il suo interesse per quell’opera, senza, tuttavia, indicarne le ragioni;

la seconda, delimita l’ambito della scelta alle opere innecessarie o contingenti, categoria alla quale – a suo avviso – si ascriverebbe il Chisciotte.

E’ evidente che tale asserita qualità del Chisciotte, essendo fondata su una negazione, su una mancanza, piuttosto che su una qualità positivamente identificante, non è selettiva; infatti, possono sicuramente esistere anche altre opere “innecessarie e contingenti”.

In altri termini, se la preoccupazione di Menard era di non incorrere in una tautologia, tale preoccupazione avrebbe potuto essere eliminata anche mediante la scelta di altre opere.

La spiegazione offerta da Menard si rivela, dunque, fallace, in coerenza con il carattere sfuggente del personaggio; in verità, vedremo che c’è una ragione più sincera, che Menard manifesterà solo alla fine del racconto e che è legata al suo significato.

Egli prosegue, affermando che addirittura una certa interiezione di Poe è, per lui, d’importanza capitale, al punto da non poter immaginare l’universo senza di essa.

Infine, afferma di aver letto da bambino il Chisciotte e di conservarne un vago ricordo, equivalente “all’immagine anteriore di un libro non scritto”.

Borges ci offre, con questo brano della lettera di Menard, diversi elementi ricchi di valore ermeneutico.

Menard, come visto, è un simbolista devoto di Poe, che generò Baudelaire, che generò Mallarmé, che generò Valéry, che generò Edmond Teste.

Come sottolineato da Borges con l’enunciata sequenza, Edgar Allan Poe ha influenzato in modo considerevole la letteratura francese nel secolo dal 1846 al 1945, iniziato con la sua scoperta in Francia da parte di Baudelaire e concluso con la morte di Paul Valéry.

L’influenza di Poe su Valéry è stata molto forte, a causa della notevole affinità di pensiero tra i due scrittori, che attribuivano, entrambi, prevalenza alla razionalità, all’intellettualismo, alla cerebralità e alla ingegneria letteraria. (Valéry si riferiva a Poe come a “l’ingénieur de l’esprit”, in Cahiers, Paris, 1957-1961, 6: 767).

Menard, devoto di Poe ed amico di Valéry, stabilendo una correlazione necessaria (non posso immaginare l’universo senza…) tra l’armonia poetica del verso di Poe “Ah, bear in mind this garden was enchanted!” (Ah, serbo nella mente questo giardino così incantato!) (dal poema “A Elena”, 1848) e l’Universo, richiama il saggio di Valéry “Au sujet de «Eureka»” (1923).

Ivi, il simbolista francese, nel commentare il poema in prosa di Poe «Eureka» (1848), rileva: “Nel sistema di Poe, la consistenza (consistency) è, al tempo stesso, il mezzo per la scoperta e la scoperta stessa. Si tratta di un disegno formidabile: esempio e messa in opera dell’adattamento reciproco. L’Universo è costruito in modo tale che la sua profonda simmetria sia in qualche modo presente nell’intima struttura del nostro spirito. L’istinto poetico, dunque, ci conduce ciecamente alla verità.”

Infatti, per Poe, “la consistenza è l’essenza poetica dell’Universo, che nella sua simmetria suprema è il più sublime dei poemi.”

In una lettera del 24 settembre 1867, diretta a Villiers de l’Isle-Adam, Mallarmé esprime un pensiero che lo occupa da tempo: dichiara di aver “compreso l’intima correlazione della Poesia con l’Universo”.

Analoga correlazione Menard coglie, altresì, con l’opera di Rimbaud “Bateau Ivre” o con quella di Coleridge “l’Ancient Mariner”.

Nell’opera “The Philosophy of Composition” (1846), Poe illustra la tecnica di scrittura d’un poema e, facendo riferimento al suo stesso poema “Il Corvo”, dichiara: “E’ mia intenzione dimostrare come nessuna parte del poema può essere attribuita al caso o all’intuizione, e che l’opera procedette passo dopo passo verso la sua conclusione, con la precisione e il rigore logico d’un problema matematico”.

Questa “estetica” è assolutamente condivisa da Baudelaire, che tradusse per primo l’opera di Poe in francese con il titolo “La genèse d’un poème” e da Paul Valéry.

Quest’ultimo, com’è noto, dedicò tutta la vita a due questioni di fondo: lo studio del processo creativo, cioè la questione della creazione artistica (ποίεσις) e la comprensione della mente, della propria stessa mente, durante l’atto della creazione artistica (Self-Consciousness).

Poe ebbe un’influenza importante su entrambi gli aspetti.

In particolare, la descrizione della mente creativa del personaggio “Leonardo” e del cervello analitico di “Edmond Teste”, derivati dal personaggio di Edgar Allan Poe, “August Dupin”, rivela un’attenzione quasi ossessiva di Valéry per il rigore intellettuale e per l’autocomprensione.

“…. Celui qui m’a fait le plus sentir sa puissance fut Poe. J’y ai lu ce qu’il me fallait, pris de ce délire de la lucidité qu’il communique.” (…. Chi mi ha fatto sentire di più la sua potenza fu Poe. Io ho letto nelle sue opere ciò di cui avevo bisogno, preso da questo delirio della lucidità ch’egli comunica).  (Paul Valéry, Lettres à quelques-uns, Paris, 1952, pp. 97-98, lettre à Albert Thibaudet, 1911).

Dunque, l’affermazione di Menard: “Non posso immaginare l’universo senza l’interiezione di Edgar Allan Poe…” risulta coerente con la stretta correlazione stabilita dai simbolisti tra la perfezione poetica e quella dell’Universo (consistenza).

Tale perfezione postula che alla base della produzione artistica ci sia un grande rigore intellettuale.

Questo elemento costitutivo ed ineludibile dell’estetica letteraria risulta assente nell’opera di Cervantes, come afferma Pierre Menard: “Il mio compiacente precursore non rifiutò la collaborazione del caso: andava componendo la sua opera immortale un poco à la diable, portato da inerzie del linguaggio e dell’invenzione.”

Menard, ironizza Borges, da simbolista ortodosso, ossequioso delle regole della poetica di Valéry, diversamente da Cervantes, ha contratto “l’obbligo misterioso di ricostruire letteralmente la sua opera spontanea.” Non ci può essere spazio per il caso, per l’invenzione, né per la spontaneità.

La satira di Borges verso questa teoria estetica è qui veramente caustica.

L’opera di Cervantes, per il processo produttivo che l’ha generata, non può essere in armonia con l’universo, che è – come s’è visto – secondo Poe, Mallarmé e Valéry, coerenza e simmetria e non tollera l’incidenza del caso, dell’invenzione o dell’inerzia del linguaggio.

Per questa ragione, Menard può immaginare l’universo senza il Chisciotte: questo è, dunque, un libro contingente ed innecessario, non inevitabile.

Ma se il Chisciotte di Cervantes non è in sintonia con l’Universo, se è un libro contingente, esso non esprime alcun archetipo, il riflesso nel mondo immodificabile delle Idee di Platone, onde, la sua lettura e riscrittura – intesa come ri-creazione dell’opera –  è esente dal rischio della tautologia.

L’ultimo paragrafo della lettera di Menard ritorna sulla teoria della ricezione, sulla connessione tra lettura ed interpretazione e sull’effetto del tempo sull’interpretazione, che consentono a Menard di riscrivere l’opera, letteralmente identica, ma nuova quanto al suo significato.

A questo punto, il narratore passa all’esame per exempla dell’interpretazione del testo dei frammenti del Chisciotte letti da Pierre Menard, tenendo a mente la circostanza che “(Egli)… volle giungere al Chisciotte attraverso le esperienze di Pierre Menard” e le esperienze costituiscono un sistema di valori, una griglia interpretativa.

Il frammentario Chisciotte di Menard abbiamo visto essere testualmente identico a quello di Cervantes e, tuttavia – afferma il narratore – esso è più sottile, quasi infinitamente più ricco di quello dell’«ingenio lego».

Borges pone così a confronto l’estetica barocca della Spagna del XVII secolo con quella simbolista francese del XX secolo.

Menard-Valéry-Teste, come abbiamo visto, attribuivano prevalenza alla razionalità, all’intellettualismo, alla cerebralità e alla ingegneria letteraria.

Il processo creativo, cioè la questione della creazione artistica (ποίεσις), era condizionato da un’attenzione quasi ossessiva per il rigore intellettuale, nulla era lasciato al caso, alla spontaneità,

la loro prosa era frutto di un’infinita e fine cesellatura, la loro estetica era architettonica, ricercava l’armonia e le corrispondenze con l’Universo (consistenza). E’ un modo intellettualistico di concepire l’estetica letteraria.

Donde discende ovvia la conseguenza che il testo di Menard sia più sottile di quello di Cervantes.

Questi “non rifiutò la collaborazione del caso: andava componendo la sua opera immortale un poco à la diable, portato da inerzie del linguaggio e dall’invenzione”.

La Spagna di Menard è la terra di Carmen (XIX secolo) nel secolo di Lepanto e di Lope (XVII secolo); egli elude ogni spagnolata “non s’impaccia di gitanerie, né di conquistadores, né di mistici, né di Filippo II, né di autodafé”.

Menard esprime tutto il rigore formale di Valéry, egli non è né Maurice Barrès (1862-1923), l’ideologo di estrema destra del nazionalismo francese, cultore dell’egotismo, né il dottor Rodríguez Larreta  (1875-1961), scrittore argentino inviso a Borges, autore del romanzo storico  esotico “La gloria di don Ramiro” (1908), ambientato nella Spagna del Siglo de Oro, il cui sottotitolo è “Una vita ai tempi di Filippo II” e nel quale si narra, con un’alternanza di stili arcaicizzante e moderno, la vita di don Ramiro, la sua passione per Aixa, una bellissima araba, che finisce condannata al rogo in un autodafé a Toledo.

(nell’”Arte di ingiuriare”, in “Storia dell’Eternità”, 1933, Borges dichiara che l’uso del titolo «dottore» è un’annichilazione, una stroncatura definitiva).

Così, appare chiaro come Pierre Menard disprezzi il colore locale, quello che caratterizza, invece, il romanzo Salammbô del realista Flaubert.

Quindi, il narratore passa all’esame dei singoli capitoli del Chisciotte riscritti da Pierre Menard.

Il Capitolo XXXVIII della prima parte tratta del discorso di Don Chisciotte sulle armi e sulle lettere.

Il tema è centrale anche nelle opere di Borges ed è autobiografico: i suoi antenati militari, la sua “smania per un destino epico” (Borges, “Abbozzo di autobiografia”, Einaudi, 1998, p. 130), che le condizioni fisiche gli hanno negato, il rimpianto e la nostalgia di quel mondo impossibile.

I libri e la letteratura sono “finzioni”, pallide immagini riflesse della  vita fatta di azione e di coraggio, di polvere e di sangue in battaglia, del vivido brillare di un pugnale o di una spada.

(“I sentieri sono due. Quello dell’uomo/ di ferro e di superbia, che cavalca/ con salda fede per la dubbia selva/ del mondo, tra gli sberleffi e la danza/ immota del Demonio e della Morte,/ e l’altro, breve, il mio”; da “Due versioni di Ritter, Tod und Teufel, II, in “Elogio dell’ombra”, 1969).

Qui il tema assume il significato dell’impegno sociale: cioè se siano più utili a tutelare le istituzioni le lettere o le armi.

Il narratore non nasconde il proprio disappunto nel rilevare come Pierre Menard, contemporaneo di Julien Benda (1867-1956), autore della Trahison des clercs  (Il tradimento degli intellettuali) e di Bertrand Russell (1872-1970), scrittore, filosofo e matematico, obiettore di coscienza nella prima guerra mondiale, fortemente impegnato nel movimento pacifista, abbia potuto recepire de plano le tesi di Don Chisciotte e di Cervantes circa la prevalenza delle armi sulle lettere, tesi che egli qualifica come “nebulose sofisticherie”.

A questo riguardo, riferisce quattro giustificazioni: la prima, di Madame Henri Bachelier, considera la subordinazione dell’autore alla psicologia dell’eroe; una seconda, non più perspicace, vuole scorgervi una trascrizione del Chisciotte; altra, della baronessa di Bacourt, postula l’influenza di Nietzsche, il filosofo del superuomo, esaltatore della volontà di potere; ed, infine, il narratore stesso, richiamando tratti peculiari del carattere di Menard, ritiene possibile che abbia prevalso la sua abitudine di propagare idee che sono il contrario del suo autentico pensiero, come aveva fatto nell’invettiva contro Paul Valéry.

Il narratore conclude, affermando che, a dispetto dell’identità letterale dei due testi, quello di Cervantes e quello di Menard, quest’ultimo è quasi infinitamente più ricco, forse più ambiguo, ciò che è, comunque, in sé una ricchezza.

La conclusione del narratore non appare comprensibile, né giustificata dal significato inferibile dall’interpretazione letterale della pagina.

Borges, però, fornisce l’indirizzo interpretativo, con la citazione dell’opera di Julien Benda (1867-1956).

Questi, infatti, nella Trahison des clercs (1927), nel periodo tra la prima e la seconda guerra mondiale), rimprovera agli intellettuali, soprattutto francesi suoi contemporanei, di essere sempre più impegnati in politica e in particolare nelle ideologie estreme fascista e comunista, entrambe nazionaliste e razziste, che promuovono uno Stato forte, tradendo, così, la loro funzione sociale essenziale, che dovrebbe, invece, consistere nel servire e mantener fermi i valori universali ed eterni della giustizia, della morale civile, della verità e della ragione, in modo assolutamente libero e disinteressato, non ideologizzato.

Benda paventa nel 1927 (e la Storia gli darà ragione) che uno Stato forte, nel quale prevalga l’idea di ordine, non nel senso di cosmo, di armonia dell’Universo, bensì in quello più concreto e materiale, di ordine tra classi sociali stabilito e mantenuto con la forza, indebolisca la democrazia, accresca i nazionalismi e, alla lunga, produca tensioni tali che possono sfociare nella guerra.

L’intellettuale impegnato in politica, dunque, abdicando alla sua funzione di guida morale e civile della società, dimostra di avere smarrito l’essenza del valore di forza, che si giustifica solo se ed in quanto sia posta a servizio della giustizia sociale.

Così, l’intellettuale diviene, in modo più o meno consapevole, responsabile e coprotagonista di un processo destinato a degenerare, che condurrà le nazioni alla guerra.

In altri termini, l’intellettuale, abdicando al proprio ruolo guida nel senso più alto e nobile del termine e della funzione, pronuncia implicitamente un discorso per le armi, come Cervantes e come Don Chisciotte.

Ne la trahison des clercs, Julien Benda attacca in modo espresso Paul Valéry, accusandolo di essere, con la sua esaltazione del dinamismo del pensiero, che non prende mai posizioni nette e definitive, fautore di un ripiegamento de l’ésprit su sé stesso, di una ricerca interiore continua, che risulta socialmente improduttiva, fallace e indefinita.

Anch’egli, dunque, seppur in modo ambiguo, rinunciando al ruolo guida proprio dell’intellettuale, tradisce la sua funzione e, secondo Benda, è corresponsabile della promozione del processo di degenerazione della politica che condurrà alla guerra.

Si comprende, dunque, quanto più sottile e ricco, sia pur nella sua ambiguità, si palesi il discorso per le armi di Pierre Menard, amico di Valéry, in raffronto a quello del vecchio soldato Cervantes.

Proseguendo nel confronto tra i due Chisciotte, il narratore esamina un brano dedicato alla Storia, tratto dal capitolo IX della prima parte del romanzo.

Il brano è evidentemente identico sotto il profilo testuale, ma diversissimo – egli afferma – sotto quello del significato.

In particolare, il narratore sottolinea la densità filosofica del testo di Menard, contemporaneo del medico, filosofo e psicologo statunitense William James (1842-1910).

Questi, in due suoi importanti scritti, “The Will to Believe, and Other Essays in Popular Philosophy” (1897) e “Pragmatism: A New Name for Some Old Ways of Thinking” (1907), ha affermato l’esistenza di correlazioni tra i due ambiti, presuntivamente autonomi, del “credere” e del “volere”.

Egli ritiene che l’intelletto umano svolga delle attività costruttive ed anticipatrici che possono condizionare quelle meramente recettive.

In altri termini, le credenze, i desideri, le passioni, tutte afferenti alla sfera della volontà (The Will), hanno potere sui nostri pensieri, sulle nostre convinzioni, sui nostri giudizi, sulle nostre credenze (to believe).

Egli ritiene che tali reciproche influenze non siano indizio di difetti mentali, ma rappresentino, invece, esigenze necessarie per il normale esercizio delle facoltà intellettuali e per il loro più efficace funzionamento nell’acquisizione di nuove cognizioni e nell’accertamento di quelle già possedute. Tali influenze, dunque, non solo non sarebbero dannose, ma risulterebbero, addirittura, utili e logicamente giustificate.

Ciò ha evidenti riflessi sull’interpretazione e sulla valutazione della realtà e della verità.  Diversamente dai seguaci del Materialismo storico, che negano alle credenze e alle aspirazioni più elevate dell’Umanità qualunque influenza reale sull’andamento della Storia, James ritiene che tali credenze ed aspirazioni, e le energie individuali o collettive che da esse si sprigionano, rappresentino degli elementi attivi importanti, talora decisivi, nella determinazione del corso della Storia dell’Umanità.

Appare evidente che tale concezione relativizza la verità storica, ammettendo la prevalenza del giudizio sull’accertamento del fatto.

Menard, con Valéry, considera la Storia una “Science conjecturale… en raison de l’impossibilité de séparer l’observateur de la chose observée et l’Histoire de l’historien”. (Valéry, “Discours de l’Histoire prononcé à la distribution solennelle des prix du lycée Janson-de-Sailly”, 1932) (Scienza congetturale… in ragione dell’impossibilità di separare l’osservatore dalla cosa osservata e la Storia dallo storico).

La Storia, dunque, nel testo di Menard, prevalendo il giudizio dello storico sull’accertamento della verità, “non è ciò che avvenne, ma ciò che noi giudichiamo che avvenne”.

Sul piano dello stile, il narratore rileva, ovviamente, che quello arcaicizzante di Menard risulta estraneo al XX secolo, mentre era appropriato al barocco del XVII secolo.

Adesso il narratore svolge delle considerazioni che, se non sapessimo di essere di fronte ad un testo di Borges, attribuiremmo direttamente a Valéry.

Esse costituiscono una sintesi mirabile, quale sa farla Borges, dell’essenza del pensiero di Valéry.

Intanto, la terminologia: “Esercizio intellettuale” è un’espressione che ricorre infinite volte nelle opere di Valéry, principalmente nei Cahiers.

L’opera letteraria, per Valéry, non è il fine, ma l’occasione per un processo di perfezionamento personale, un “esercizio intellettuale”, un “esercizio de l’esprit”, una palestra d’esercizio, una ginnastica, come per un atleta.

Inoltre, come una cosa sacra, essa è avvolta di mistero e non va divulgata: i testi ermetici rifiutano la mercificazione editoriale, così come il plauso volgare; essi eleggono il loro pubblico, sono destinati a pochi eletti, accomunati da un disdegno aristocratico e da una passione segreta.

E’, questa, l’essenza del simbolismo: il simbolo è segno di riconoscimento che consente di individuare i simili; è una fede nell’arte, una liturgia della parola, è poesia pura, come quella della Pizia (1919, inserita poi nella raccolta Charmes) .

In una lettera giovanile all’amico Pierre Louÿs (1890), Valéry professa il suo ideale letterario: “Volete conoscere il mio ideale letterario?… . Sogno una poesia corta – un sonetto – opera di un sognatore raffinato che sia nello stesso tempo un saggio architetto, un sagace matematico, un calcolatore infallibile dell’effetto da produrre.  … Per concludere la mia professione di fede, vi dirò che amo l’arte messa al riparo dalla massa, e che mi piace, in questi tempi di concorrenza vitale, di mercantilismo, di cancellazione della personalità, chiudermi nel chiostro dei Nobili Inutili, dei raffinati, dei Femminei, e godermi questa suprema antitesi, la barbara grandezza del moderno mondo industriale in contatto con le ultime eleganze, le ricerche delle voluttà più rare, e l’Alchimia della Bellezza!”.

Questa sua idea dell’isolamento, del ripiegamento su sé stesso, dell’opera come esercizio intellettuale, piuttosto che come fine, gli procurerà i rimproveri di altri intellettuali, tra cui, come abbiamo visto, Julien Benda, di un’intelligenza «inoperosa» di fronte alle occasioni politiche e alle tentazioni filosofiche.

E’ questa la futilità della fatica di Pierre Menard e, insieme, la ragione della sua divina modestia: egli lavorava per sé stesso, svolgeva, in modo oscuro e segreto il suo esercizio intellettuale, scevro da mire utilitaristiche, e anche da semplice vanità.

Nell’ultima pagina del racconto, Borges fa esprimere al narratore una riflessione sull’impresa di Pierre Menard, che costituisce un indirizzo interpretativo, in vista della conclusione affidata alle parole dello stesso Menard.

“Ho pensato che il Don Chisciotte finale potrebbe considerarsi una specie di palinsesto….”.

Ma Menard aveva già spiegato quale fosse la differenza tra la sua impresa e le dimostrazioni metafisiche o teologiche: egli ha risoluto di cancellare le tappe intermedie del suo lavoro, mentre i filosofi le pubblicano in gradevoli volumi. I filosofi, come abbiamo visto, pubblicano le loro opere che costituiscono letteratura fantastica.

Dunque, il loro pregio è prevalentemente estetico, donde i gradevoli volumi.

Borges così richiama l’attenzione sulla circostanza che l’attività svolta da Pierre Menard assume pregnante significato in ambito di estetica letteraria.

Pierre Menard, con la sua scelta del Don Chisciotte ha operato un’opzione estetica in contrapposizione a quelle di Valéry, di Poe, di Mallarmé e, in generale, del Simbolismo e, non avendo il coraggio delle proprie idee, ha voluto nasconderla, cancellando le tappe intermedie del suo lavoro in modo da distanziarsi dai filosofi e teologi e dai loro gradevoli volumi.

Ed ora è Pierre Menard stesso a riprendere i concetti già esaminati in Paul Valéry: “Pensare, analizzare, inventare… non sono atti anomali, sono la normale respirazione dell’intelligenza. Glorificare l’occasionale esercizio di questa funzione….”. Ribadisce in modo autografo la natura della sua fatica: un esercizio intellettuale.

Adesso, però, per la prima volta, Pierre Menard palesa la ragione sotterranea del suo interesse per l’opera di Cervantes.

Egli ha glorificato l’esercizio dell’intelligenza, compiendo la sua improba fatica: riscrivere ex novo a memoria alcuni capitoli del Chisciotte in modo testualmente identico, perché tesaurizzare pensieri antichi e lontani, ricordare con incredulo stupore il pensiero di Cervantes – che da ingenio lego (ingegno laico, in contrapposizione a quello ecclesiastico, che simboleggia la cultura umanistica) è ora eretto a doctor universalis, cioè dottore della Chiesa, come San Tommaso D’Aquino, come Alberto Magno o Alano di Lilla – è confessare il nostro languore nostalgico o la nostra barbarie.

Il simbolista francese del XX secolo, amico di Paul Valéry, per la prima volta, e ciò è rilevante a fini interpretativi, considera il Don Chisciotte – quell’opera già ritenuta contingente ed innecessaria – un esempio per i posteri barbari, un’opera che suscita nostalgico languore.

E conclude con una speranza: “Ogni uomo dev’essere capace di ogni idea, e credo che nell’avvenire sarà così”.

Egli, uomo libero, capace di ogni idea, in modo umile e segreto, scevro da ogni interesse ed ambizione, ha compiuto un’impresa complessissima e quasi impossibile e lo ha fatto per due ragioni: come esercizio intellettuale, cioè per sé stesso, per osservare il proprio Io nell’atto della produzione artistica, e perché ha ritenuto che il pensiero di un classico fosse così carico di valori, estetici ed etici, da poter educare la sua barbarie.

Menard, forse senza volerlo, nota il narratore, ha arricchito l’arte incerta della lettura.

Se la lettura è riscrittura del testo, sua interpretazione ed attualizzazione, il nuovo testo, seppur identico, è attribuito al lettore ed è ambientato in una realtà ed in un’epoca diversa: il cambiamento dell’autore, modificando il tempo della composizione, realizza in modo automatico un anacronismo.

Ma l’attualizzazione dell’opera, dice il narratore, la rinnova, la arricchisce, la popola di avventure; anche un testo “calmo”, “dai tenui consigli spirituali” come l’Imitazione di Cristo, di cui non è noto l’autore, se dalla sua epoca medioevale viene attribuito a Louis Ferdinand Céline (1894-1961), scrittore francese antisemita, o a James Joyce (1882-1941), scrittore irlandese autore dell’Ulisse, che abbandonò la Chiesa cattolica con aspra critica, viene interpretato in modo certamente diverso, in quanto è fuor di dubbio che la temperie culturale, sociale e politica dell’epoca in cui  un’opera è letta e reinterpretata condiziona significativamente il senso del testo.

D’altronde, abbiamo esaminato i profondi cambiamenti di significato e gli arricchimenti derivanti dall’attribuzione a Pierre Menard del Don Chisciotte.

 

  1. Significato del Racconto

Il racconto, complesso, presenta diversi livelli di significato, tutti comunque inscritti nell’opera visibile di Pierre Menard e denotati dalla sua evoluzione temporale, che è allusiva non solo all’evoluzione del pensiero di Pierre Menard, rectius di Paul Valéry, ma soprattutto all’evoluzione del pensiero di Borges sull’estetica letteraria, sulla sua poetica.

Insieme a questo significato principale, che avvicina il racconto al successivo “Tlön, Uqbar, Orbis Tertius”, è presentata, in modo esplicito, la teoria della lettura come ricezione, che ha poi ricevuto grande attenzione nel XX secolo ed è stata sviluppata teoricamente, quella della mancanza di soggettività autoriale ed, infine, quella dell’irriverenza delle periferie, simboleggiata dal paradosso di Zenone sull’irraggiungibilità della tartaruga da parte di Achille.

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Alla novità di genere letterario inaugurata da Borges dopo l’incidente del Natale 1938, se ne coniuga una più profonda, che riguarda il suo autentico pensiero sul valore estetico della letteratura.

“Pierre Menard, autore del «Chisciotte»” costituisce il manifesto dell’estetica di Borges, un “manifesto ermetico”, si direbbe con un ossimoro, considerato che la sua interpretazione è lungi dall’essere manifesta.

Tuttavia, una volta svelatone il significato, l’estetica di Borges diviene palese ed è quella che perdurerà fin nelle sue ultime opere.

Un’estetica non sistematizzata, in quanto, com’è noto, Borges (ma anche Valéry) concepisce la filosofia come una “coordinazione di parole”, “un ramo della letteratura fantastica”.

Apparirà, comunque, evidente come la riflessione estetica dei due autori approdi a conclusioni divergenti.

Come abbiamo visto analizzando il racconto, Borges offre, seppur celati, alcuni indirizzi interpretativi: tra questi, lo sviluppo nel tempo dell’opera visibile di Menard, “diagramma della sua storia mentale”.

La diacronia dello sviluppo di pensiero, come accennato, descrive l’evoluzione nel tempo sia del pensiero di Menard (cioè di Paul Valéry), sia di quello di Borges, sul tema dell’estetica letteraria.

L’opera visibile di Menard, che abbiamo esaminato nel dettaglio, si sviluppa tra il 1899 e il 1934, cioè tra l’anno di nascita di Borges ed il periodo, la decade degli anni trenta, in cui matura in lui la nuova concezione estetica della letteratura.

Essa è incorniciata tra due opere poetiche: un sonetto simbolista, pubblicato due volte nel 1899, un ciclo di sonetti del 1934 e una lista manoscritta di versi non datata, ma non anteriore al 1934.

Nell’ambito di questa cornice, che conferisce uno sfondo simbolista alla serie, Menard si occupa solo di prosa: in particolare, di traduzioni, di aspetti formali del linguaggio, che evocano una precisione quasi matematica, di trasposizioni metriche e di leggi metriche, di costumi sintattici e di un’invettiva contro Paul Valéry.

Come si osserva agevolmente, la poesia è affatto minoritaria e la prosa è tutta saggistica e riguarda soltanto aspetti riguardanti la forma delle opere letterarie.

L’immagine di Menard che emerge dalla sua produzione letteraria visibile, è, dunque, quella di un saggista con spiccata propensione per l’ordine, il tecnicismo, l’indagine formale; è, in definitiva, l’immagine di un intellettuale freddo, di uno studioso cerebrale, più che quella di un artista.

Borges, a questo punto, introduce un coup de théâtre: Menard è anche un romanziere.

La sua opera sotterranea è infinitamente eroica, impareggiabile ed incompiuta. E’ forse la più significativa del nostro tempo.

L’idea è funzionale al significato del racconto: Menard, simbolista francese del XX secolo, sceglie di «riscrivere» fedelmente ed in lingua originale un’opera del barocco spagnolo del XVII secolo, il Don Chisciotte.

La scelta  attribuita a Menard consente a Borges di mettere in contatto due estetiche, di instaurare un raffronto, di produrre un giudizio critico, in quanto il lettore (Menard) legge e traduce quell’opera, la filtra attraverso il proprio ambiente interno (psicologico e culturale) ed esterno, la interpreta, inserendola nel proprio contesto storico e socio-culturale, cioè la attualizza.

Borges, sotto uno stupendo ed ironico gioco finzionale, si procura la possibilità di formulare il suo giudizio sulle due concezioni estetiche messe a raffronto, e, insieme, di approfondire – offrendo spunti di riflessione estremamente fertili, che saranno elaborati successivamente dai critici del linguaggio – i profili, più teorici, della lettura come ricezione, cioè della traduzione e dell’ermeneutica.

Menard, il simbolista, diviene egli stesso simbolo della lettura e della riscrittura, che è traduzione.

“A volte credo che i buoni lettori siano cigni anche più tenebrosi e rari che i buoni autori…. Leggere è un’attività successiva a quella di scrivere: più rassegnata, più civile, più intellettuale”. (dalla “Prefazione alla I edizione di “Storia Universale dell’Infamia”, 1935).

Ed, anche: “Il libro non è un ente chiuso alla comunicazione: è una relazione, un asse di innumerevoli relazioni”. (da “Nota su (intorno a) Bernard Shaw”, op. cit.).

Com’è noto, Borges da giovane fu poeta ultraista e prosatore barocco.

La decade 1920-1930, durante la quale pubblicò tre libri, che dopo ripudiò: “Inquisizioni” (1925), “La misura della mia speranza” (1926) e “L’idioma degli argentini” (1928), è ricca di retorica barocca e di passione ultraista, quest’ultima soltanto declamata nei saggi e nel “Manifesto ultraista” (1921), in quanto, in realtà, sin dalla sua prima raccolta di poesie “Fervore di Buenos Aires” del 1923, egli aveva già abbandonato la poetica ultraista.

A questo riguardo, va rilevato che vi sono punti di contatto tra le concezioni estetiche dell’ultraismo, del simbolismo (che ne fu il precursore) e del barocco, tutte convergenti nel culto della metafora.

Questa figura retorica contrassegna l’evoluzione estetica di Borges ed è stata da lui trattata in diversi saggi giovanili inclusi nei libri “Testi ritrovati 1919-1929”, “Inquisizioni”, “L’idioma degli argentini”, ed anche in saggi della maturità, come “Le kenningar” e “La metafora”, entrambi in Storia dell’Eternità (1936).

La discussione sulla metafora evolve da una prima, entusiastica fase di culto della figura retorica ad una fase più matura e distaccata.

“Ieri ho brandito gli argomenti che la privilegiano, sono stato ammaliato da loro; oggi voglio far vedere la loro fragilità, la loro anima dubbiosa” (da “Ancora la metafora”, in “L’idioma degli argentini”, 1928). E, di nuovo: “L’«ultraista morto», il cui fantasma continua sempre ad abitare in me, gode di questi giochi” (da “Le kenningar”, 1936).

Infine: “Intessute nel verso e dal verso sostenute, queste metafore largiscono (o largirono) una sorpresa piacevole; poi sentiamo che non c’è un’emozione a giustificarle, e le giudichiamo laboriose ed inutili. Ho notato che la stessa cosa succede con le metafore del simbolismo e del marinismo.” (da “La metafora”, 1952).

Il tema è connesso con il significato di “Pierre Menard”; infatti, Borges, nella maturità, è pervenuto ad una conclusione di grande rilevanza: “…forse è un errore supporre che le metafore possano essere inventate. Quelle vere, che formulano intimi legami tra due immagini, sono sempre esistite; quelle che ancora possiamo inventare sono false, che non vale la pena inventare.” (da “Nathaniel Hawthorne”, in Altre Inquisizioni).

E, nuovamente: “Forse la storia universale è la storia della diversa intonazione di alcune metafore.” (da “La sfera di Pascal”, (1951) in Altre Inquisizioni).

In altri termini, Borges, fedele agli insegnamenti platonici (teoria della reminiscenza), di Schopenhauer (la storia è un caleidoscopio, nel quale cambiano le figure, non i pezzetti di vetro) e di Nietzsche (dottrina dell’eterno ritorno: “la storia universale è avvenuta un numero infinito di volte, nell’Eternità anteriore” (da “La dottrina dei cicli”, in  “Storia dell’Eternità”, 1934), ritiene che la letteratura «riscriva» i pensieri essenziali con emozione, ed è ciò che la rende universale.

La buona letteratura è, dunque, per Borges, di secondo grado, è riscrittura, è ricontestualizzazione di alcune metafore, e ciò spiegherebbe il riferimento al palinsesto.

“Coloro che copiano minuziosamente uno scrittore, lo fanno impersonalmente, lo fanno perché confondono quello scrittore con la letteratura, lo fanno perché sospettano che allontanarsi da lui anche di poco sia allontanarsi dalla ragione e dall’ortodossia.” (da “Il fiore di Coleridge”, in Altre Inquisizioni, 1952).

Borges sta chiosando “Pierre Menard”.

Questo racconto fondamentale dell’estetica di Borges propone l’idea di «riscrittura» come atto creativo consistente nella rienunciazione di una scrittura, cioè nella sua lettura.

Come s’è già osservato nella parte dedicata all’opera visibile di Menard, esistono anche forti convergenze tra l’estetica simbolista e quella barocca, soprattutto di carattere formale (preziosismi).

Ciò che, invece, denuncia divergenza è la concezione sostanziale dell’opera, il suo oggetto e la sua finalità.

Per Paul Valéry, come s’è già visto, più che l’opera compiuta importa il processo produttivo dello spirito, l’osservazione del proprio Io nell’atto del produrre, quella che egli, con Poe, chiama Self-Consciousness.

L’ispirazione naturale e spontanea, quello stato di grazia che consente all’Io di elevarsi, attingendo l’universale, l’archetipo platonico (teoria della reminiscenza), è da lui rifiutata e considerata dannosa, in quanto il processo produttivo parte dalla forma, dall’applicazione di regole e si disinteressa dell’efficacia del testo, che  è connessa al sentimento, all’amore suscitato nel lettore.

Come abbiamo visto, il processo di creazione del poema “Il Cimitero marino”, descritto da Valéry, prendeva l’avvio da una «musica interiore», fondata sul verso e sulla strofa, che cantava nello spirito del poeta ancor prima ch’egli avesse chiara l’idea di ciò che essa avrebbe poi espresso concettualmente.

Valéry, come Pierre Menard, ha scritto poche poesie, qualche opera teatrale, ed una cospicua quantità di opere saggistiche, di dialoghi, opere in prosa tutte connotate dalla riflessione, dal ragionamento, dall’osservazione interiore dell’esprit nell’atto del produrre, non dalla fantasia o dall’invenzione: “Gli altri fanno libri. Quanto a me, io faccio la mia mente” (Cahiers, II, 840).

Per lui, il suono, la forma di un poema prevalgono sul senso, sulla sostanza, sul contenuto.

Il protagonista di uno dei suoi rari racconti, “il piuccheperfetto Monsieur Teste” è, come abbiamo visto, uno strumento di pensiero, di conoscenza, di ragionamento, è una «machine à penser» (una macchina per pensare), un «crible machinal» (un setaccio meccanico).

Per Valéry la poesia, non deve illustrare nulla, essa è fine a sé stessa (da “Propos sur la poésie”, in Variété I, 1924).

In essa, dunque, la forma è l’elemento essenziale e prevale sul contenuto, sul merito.

In “Nota su (intorno a) Bernard Shaw”, Borges, invece, afferma: “La concezione della letteratura come giuoco formale conduce, nel migliore dei casi, al buon lavoro del periodo e della strofa, a un decoro artigianale …, e nel peggiore alle oscurità di un’opera fatta di sorprese dettate dalla vanità e dal caso… . Se la letteratura non fosse che un’algebra verbale, chiunque potrebbe produrre qualunque libro, a forza di tentare variazioni.”

Di nuovo affermazioni che appaiono chiara chiosa a “Pierre Menard, autore del Chisciotte”.

Ancora, nel Prologo a “Il manoscritto di Brodie”, Borges così si esprime: “L’esercizio delle lettere è misterioso; ciò che noi opiniamo è effimero, e io sceglierei la tesi platonica della Musa piuttosto che quella di Poe, il quale ragionò, o finse di ragionare, che la stesura di una poesia è un’operazione dell’intelligenza. Non finisce di meravigliarmi il fatto , che i classici professassero una tesi romantica, e un poeta romantico, una tesi classica.”

In “Flaubert e il suo destino esemplare” (“Discussione”, 1932), Borges aggiunge: “Con lunga integrità (Flaubert) inseguì il mot juste, il quale ovviamente non escludeva il luogo comune, e poi sarebbe degenerato nel vanitoso mot rare dei cenacoli simbolisti.”

Traspare evidente il contrasto tra l’estetica del sentimento e dell’ispirazione (la Musa di ascendenza platonica), e quella dell’intelligenza, della forma e del rigore matematico, propria del Simbolismo.

Per Borges, la letteratura è “un sueño dirigido” (un sogno guidato) verso un destino, lo ripete nello stesso Prologo al “Manoscritto di Brodie”, appena citato, e lo aveva detto in “Nathaniel Hawthorne” (Altre Inquisizioni).

Il tema del destino è centrale nell’estetica di Borges; esso venne enunciato sin dai suoi primi saggi, per non scomparire mai più: “La finalità permanente della letteratura è la presentazione di destini” (da “La felicità scritta”, in “L’idioma degli argentini”, 1928).

Ancora: “Tutto è poetico, in quanto ci confessa un destino, in quanto ce lo fa intravedere”. (da “Professione di fede letteraria”, in “La misura della mia speranza”, op. cit.).

L’efficacia della letteratura, per Borges, non è data dallo stile, ma dal sentimento che il testo suscita nel lettore.

Senza che l’opera susciti il desiderio di proseguire nella sua lettura per conoscere il destino dei personaggi, non c’è interesse, ma soltanto noia.

Ne “La superstiziosa etica del lettore” (1930), in “Discussione”, Borges lamenta «l’incapacità di attrarre» delle lettere argentine; contesta che lo stile consista nelle “abilità apparenti dello scrittore”, anziché nell’”efficacia o inefficacia di una pagina”; contesta i lettori che “non badano all’efficacia del meccanismo, ma alla disposizione delle sue parti”, che “subordinano l’emozione all’etica, o piuttosto a un’etichetta indiscussa.”

Riferendosi espressamente al Don Chisciotte, rileva che “La critica spagnola, davanti alla provata eccellenza di questo romanzo, non ha voluto pensare che il suo maggiore (e forse unico indiscutibile) valore fosse quello psicologico; gli attribuisce invece doni di stile, che a molti sembreranno misteriosi.” E, che: “Cervantes non era affatto uno stilista (almeno nella presente accezione acustico-decorativa della parola) e che gli interessavano troppo i destini di Don Chisciotte e di Sancio per farsi distrarre dalla propria voce.”

Pierre Menard, il freddo ed asfittico poeta simbolista, intuì la profonda ed autentica natura del valore estetico di un’opera, perciò scelse di leggere, interpretare e riscrivere il Chisciotte; perciò indirizzò un’invettiva all’amico Valéry, perciò volle “glorificare l’occasionale esercizio di questa funzione (l’intelligenza), tesaurizzare pensieri antichi e lontani, ricordare con incredulo stupore ciò che il doctor universalis pensò”, perché, in tal modo, egli, che non aveva il coraggio delle proprie idee, con gesto liberatorio, a nome del cenacolo simbolista, confessava “il nostro languore o la nostra barbarie”.

Borges, come farà nuovamente in “Tlön, Uqbar, Orbis Tertius”, al cospetto della barbarie  che stava prevalendo in ogni ambito, culturale e sociale, mentre infuriava la seconda guerra mondiale (1940), testimonia la sua adesione ai valori eterni della classicità, attualizzando, mediante la traduzione, cioè la traslazione nell’oggi, valori intramontabili ed archetipici.

In Tlön, Uqbar, Orbis Tertius, dove il tema è più ampio, soprattutto di carattere storico e politico-sociale, assume a modello un’altra opera barocca della letteratura inglese, L’Urn Burial di Thomas Browne, che costituisce l’epitome di valori più generali: le radici dell’uomo, il senso della Storia, il significato della morte ed il connesso senso del limite, la denuncia della vanità dell’uomo e, anche, la letteratura come strumento di tradizione della cultura.

In Pierre Menard (1939), dove la sua attenzione è focalizzata sul tema letterario, assume a modello il capolavoro immortale di Cervantes, che emblematizza l’essenza della sua estetica: “La pagina «perfetta», la pagina in cui nessuna parola può essere alterata senza danno, è la più precaria di tutte. … Al contrario, la pagina che ha vocazione di immortalità può attraversare il fuoco dei refusi, delle versioni approssimative, delle letture distratte, delle incomprensioni, senza lasciare l’anima nella prova. … Il Don Chisciotte vince postume battaglie contro i suoi traduttori e sopravvive a ogni sbadata versione. Heine, che non lo ascoltò mai in spagnolo, poté celebrarlo per sempre. E’ più vivo il fantasma tedesco o scandinavo o indostanico del Don Chisciotte che non gli ansiosi artifici verbali dello stilista.”

Infatti: “La letteratura è l’arte che sa profetizzare quel tempo in cui sarà ammutolita, e accanirsi sulla propria virtù e innamorarsi della propria dissoluzione e corteggiare la propria fine.” (da “La superstiziosa etica del lettore”, op. cit.).

Quando il valore dell’opera letteraria risiede nel contenuto, nella passione, nel sentimento che hanno comandato nello scrittore, quando l’opera è un classico, allora, i valori archetipici, assoluti ed immortali da essa espressi sopravvivranno ad ogni prova e quella letteratura, ricca di tali virtù, saprà profetizzare il tempo in cui sarà ammutolita, per le modificazioni stilistiche sopravvenute nell’epoca successiva, ma sarà certa di rinascere dalle proprie ceneri, in quanto messaggera di valori immortali e, dunque, s’innamorerà della propria dissoluzione e corteggerà la propria fine.

“Con i libri famosi, la prima volta è già la seconda, visto che ci sono già noti quando li abbordiamo. La prudente frase comune «rileggere i classici» risulta essere innocentemente vera.” (da “Le versioni omeriche”, 1932, in “Discussione”.)

In altri termini, il libro classico contiene valori archetipici, appartenenti alla memoria dell’umanità (teoria della reminiscenza): “Classico è quel libro che una nazione o un gruppo di nazioni o il lungo tempo hanno deciso di leggere come se nelle sue pagine tutto fosse deliberato, fatale, profondo come il cosmo e capace di interpretazioni senza fine.” Ancora: “Classico… è un libro che le generazioni degli uomini, spinte da diverse ragioni, leggono con previo fervore e con misteriosa lealtà”.  (da “Sui Classici”, in “Altre Inquisizioni”, 1952).

In assenza di tali valori sostanziali, la letteratura che abbia assunto a propria virtù soltanto lo stile, la forma, la mera qualità retorica, l’esteriorità, senza preoccuparsi in alcun modo del contenuto, del sentimento, della passione, dell’umanità, del destino, saprà bensì altrettanto bene quando sarà ammutolita, ma saprà, altresì, che ciò è per sempre.

Per Borges il valore estetico del Don Chisciotte consiste nella sua capacità di far nascere verso questo personaggio ascetico, un sentimento di simpatia, di solidarietà  ed anche d’affetto, che sublima nell’umanità, ogni aspetto, anche filosofico e culturale, presente nel romanzo.

Nel saggio su “Il comportamento di Cervantes romanziere” (in “L’idioma degli argentini”, 1928), Borges introduce il concetto di “destino” del personaggio di Don Chisciotte, affermando: “Mai  destino letterario fu così abbandonato dalla mano del suo autore-dio, come quello di Don Chisciotte”.

Il giovane Borges sostiene che nessun’altra condotta di romanziere  fu così deliberatamente paradossale ed arrischiata quanto quella di Cervantes: egli, rifuggendo  da ogni volontà persuasiva nei confronti del lettore, ha, anzi, con imperturbabile atteggiamento, senza mai tradirsi, intessuto e disfatto la capacità di Don Chisciotte di suscitare ammirazione ed affetto, ora innalzandolo a semidio, con narrazioni della sua virtù, altre volte abbandonandolo a crudeli cattiverie e a calunnie, lasciandolo in solitudine e facendone emergere incapacità, trascuratezze e codardia.

Il Don Chisciotte, per Borges è la venerabile e divertente presentazione di una gran persona, descritta con dovizia di dettaglio attraverso duecento episodi perigliosi, per farcelo conoscere meglio.

E’ un metodo descrittivo che provoca, in modo insospettabile e segreto, una reazione di compassione o persino di collera, a causa delle indegnità e delle ingiustizie che colpiscono l’eroe.

Cervantes fu un agiografo, che utilizzò un metodo narrativo caratterizzato dall’eccesso, per convincerci della quasi santità di Don Chisciotte.

In altri termini, conclude Borges, traspare con evidenza l’incrollabile fiducia dell’autore nell’invulnerabilità del suo eroe. Solo Cervantes, poteva giungere a cotanta valentia.

Cervantes, afferma Borges, ha saputo farci incontrare un personaggio schietto, con il suo destino e, senza mai descriverne la psicologia, è riuscito a farcelo conoscere in modo assai approfondito attraverso le sue avventure e a farcelo sentire amico, un amico intimo, cui ci si affeziona. “Sempre penso che una delle cose felici che mi sono capitate nella vita è stata di avere conosciuto Don Chisciotte”.  (da “Mio intimo Signor Cervantes”, conferenza tenuta in inglese da Borges nell’Università del Texas, Austin, nel 1968).

Cervantes ha, dunque, compiuto una prodezza impressionante,  un miracolo, raggiunti da pochissime opere letterarie di finzione: egli ci ha fatto cogliere tutta la complessità e l’ambiguità del personaggio, pur avendoci detto pochissimo di lui.

Questi tratti del personaggio Don Chisciotte offrono al lettore un’opportunità d’immaginazione e gli consentono di ritenere di conoscerlo a tutto tondo. Ciò affascina enormemente Borges.

Nel “Prologo” alle “Novelle Esemplari” di Cervantes (1946), Borges definisce il Don Chisciotte “Il primo e il più intimo tra i romanzi di caratteri e l’ultimo e il migliore dei libri di cavalleria” e considera Cervantes uno scrittore misterioso, il cui testo possiede ed emana un incanto essenziale, che non si giustifica alla luce dell’analisi condotta con la sola ragione. (da “Prologhi”, Adephi, 2005, pp. 58-62).

Ed, infine, nel Prologo ad Alberto Gerchunoff «Ritorno a Don Chisciotte», 1951 (in “Prologhi”, op. cit. p. 89), Borges, significativamente, afferma: “Destino paradossale, quello di Cervantes. In un secolo e in un paese dai vanitosi artifici retorici, fu attratto dall’aspetto essenziale dell’uomo, sia come tipo che come individuo”.

La grande efficacia del romanzo di Cervantes, la sua capacità di suscitare emozioni profonde nel lettore, di avvincerlo, facendolo partecipare ai destini del protagonista, facendogli desiderare di conoscerne la fine, senza mai un momento di noia: questi sono i valori dell’estetica letteraria di Borges, affermati, nel genere finzionale, con “Pierre Menard, autore del Don Chisciotte”, che, per questi motivi, costituisce il suo manifesto estetico.

All’età di sessantacinque anni, Borges ricostruisce le tappe della sua carriera letteraria, nel “Prologo” alla raccolta di poesie “L’altro, lo stesso”, così sintetizzando le linee della sua evoluzione estetica: “E’ strana la sorte dello scrittore. In un primo tempo è barocco, vanitosamente barocco, ma col passare degli anni può attingere, se le stelle sono favorevoli, non la semplicità, che non è niente, ma la modesta e segreta complessità.”

Nella stessa raccolta, esprime con chiarezza le linee della sua poetica nella poesia “Baltasar Gracían”: “Labirinti, allitterazioni, emblemi,/Gelido nulla laborioso fu/Per questo gesuita la poesia,/Da lui ridotta a mero stratagemma. //Non musica nell’anima, ma un vano/Erbario di metafore ed arguzie,/Cieca venerazione per le astuzie,/Disdegno per l’umano e il sovraumano.//…”

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In accordo con la sua polisemia, con la volontà di confondimento del lettore e di sviamento dal significato più segreto e profondo, Borges inserisce, nel racconto, importanti spunti di riflessione, che richiamano l’attenzione sull’ “arte” della lettura, della traduzione e dell’ermeneutica.

Questi aspetti palesi del racconto hanno formato oggetto di numerosi commenti, e sono stati successivamente sviluppati teoricamente dagli studiosi di linguistica nel corso del XX secolo.

Essi sono stati qui, in parte, già accennati nel paragrafo dedicato all’analisi del racconto, tuttavia alcuni ulteriori approfondimenti risultano utili, in quanto convergono ad integrarne il significato.

Borges, abbiamo visto nella parte dedicata all’opera visibile di Pierre Menard, in particolare in quella di commento alla sua prima opera (lett. a), attribuisce alla lettura una dignità almeno equivalente a quella della scrittura.

Egli non stabilisce una priorità, né logica, né temporale: il lettore non viene dopo lo scrittore, perché quest’ultimo, nella sua funzione, è esso stesso un lettore.

Non attribuisce nemmeno prevalenza al cosiddetto “originale”, che, nella sua concezione è soltanto un “abbozzo” precedente, e nega, infine, il concetto di testo definitivo.

Infatti, scrivere è sempre riscrivere ciò che si legge, variandolo, attualizzandolo, filtrandolo attraverso la propria sensibilità, la propria cultura.

“Menino vanto altri delle pagine che hanno scritte;/il mio orgoglio sta in quelle che ho lette.” (dal poema “Un lettore”, in Elogio dell’ombra, 1969).

Leggere è dunque tradurre, trasporre in un nuovo contesto, nella temperie culturale del ricevente.

D’altronde, s’è visto anche (opera visibile di Menard, lett. m) come l’opera successiva, modificando il clima culturale preesistente, modifichi anche il modo d’intendere il precursore: ogni autore “crea” il suo precursore.

Così, Borges ribalta la gerarchia logico-temporale tra l’opera che precede e quella successiva, che, talvolta può essere una riscrittura, talaltra una traduzione in senso stretto, della prima.

Questo effetto destabilizza il testo precedente, l’originale ed indebolisce l’autorità dell’autore.

Ciò, per Borges è inevitabile, in quanto, in letteratura non esiste l’originalità: le idee archetipiche, quelle universali, sono nella memoria collettiva ed ogni autore, scrivendo, in verità le riscrive con qualche variazione.

Sono le variazioni, le nuove combinazioni, la diversa enfasi, ad arricchire il nuovo testo, non l’improbabile ricerca di un’impossibile originalità: rileggere i classici, dice Borges, risulta essere una frase innocentemente vera.

La sua estetica, il suo concetto di letteratura, così come sono fondati sulla memoria, sulla lettura e sulla riscrittura, non possono che avere carattere oggettivo, nel senso che postulano l’esistenza di poche metafore archetipiche, che si tramandano di opera in opera, di autore in autore: “Quattro sono le storie. Per tutto il tempo che ci rimane continueremo a narrarle, trasformate.” (da “I quattro cicli”, in L’oro delle tigri, 1972).

Ne consegue che soltanto le opere che narrano idee archetipiche, le opere che assurgono alla dignità di “classico”, resistono al tempo e alle traduzioni (in senso proprio, o nel senso lato di riscrittura); le altre opere, quelle focalizzate soltanto sul valore estetico estrinseco (il bel verso, la musicalità, lo stile), non entrano a far parte della memoria collettiva, non esprimendo valori universali, archetipici, e, dunque, non resistono al tempo, né alle traduzioni: esse sono, afferma Borges, le più precarie.

Egli, tuttavia, essendo un artista, ritiene che, in definitiva, il valore dell’opera letteraria sia essenzialmente edonistico: l’opera deve piacere; essa, tuttavia, piace se interessa; interessa se suscita un’emozione, cioè se reca un messaggio universale.

La concettosità dei temi essenziali della letteratura, necessariamente esistente per le ragioni appena dette, viene alleggerita, in Borges, nel gioco finzionale o nella creazione poetica.

In entrambi i casi, lo stile è ricercato e prezioso, ma non può mai essere fine a sé stesso.

La circostanza che l’opera successiva costituisca una traduzione, cioè una riscrittura di un precedente classico, di una delle poche idee archetipiche, pone su uno stesso piano la produzione letteraria, in quanto anche l’opera del precursore aveva seguito il medesimo percorso: era, cioè, a sua volta, una riscrittura.

Ciò consente a Borges di compiere una manovra ardita, una sfida: affrancarsi dalla sudditanza rispetto al modello, al pre-testo, da cui sta attingendo (che sta traducendo).

Infatti, se la ricchezza dell’opera letteraria dipende dalla capacità dell’autore di arricchire il pre-testo con le variazioni, con l’introduzione di nuovi moduli di organizzazione, di una diversa enfasi, allora, la nuova opera – che rimane sempre e comunque un “abbozzo” nell’evoluzione letteraria, un “non finito”, sia rispetto allo stesso autore che temporaneamente l’abbandona, ma che può sempre riprenderla, sia rispetto ai lettori contemporanei e futuri, che la interpretano e la riscrivono secondo le loro diverse culture – sarà, com’è il Don Chisciotte di Menard, più ricca del suo modello.

Ciò richiama la questione posta da Menard del rapporto tra Achille e la tartaruga: “Ne craignez point, monsieur, la tortue”.

Il traduttore, il lettore che successivamente riscriva un’opera, non deve temere il confronto con il modello di partenza, con “l’originale”.

Ciò per due ragioni alle quali abbiamo accennato: l’equiordinazione delle opere nel tempo, nella storia; la possibilità del nuovo autore, del traduttore, di arricchire il testo, di renderlo più sottile, come il Don Chisciotte di Menard.

Questo concetto, che destabilizza i testi “originali” ed affievolisce l’autorità dell’ “autore”, è anche suscettibile di un’interpretazione traslata, allegorica: Borges è uno scrittore della periferia, è un argentino del XX secolo, quando il centro della cultura era essenzialmente europeo e, un poco, nordamericano.

Egli, dunque, inevitabilmente, in base alla teoria da lui stesso elaborata, traduce, copia e riscrive idee tratte da “classici”, che non appartengono alla tradizione del suo paese, né a quella, in generale, delle periferie del mondo.

Con l’operato ribaltamento di valori, con l’affrancamento dalla sudditanza verso “i modelli”, Borges, con “irriverenza”, reclama e rivendica la possibilità che la letteratura delle periferie sia assolutamente libera, ricca e cosmopolita, partecipando con pari dignità, dei flussi culturali del “centro”.

“… Credo che noi argentini, i sudamericani in generale, ci troviamo in una situazione analoga; possiamo adoperare tutti i temi europei, adoperarli senza superstizioni, con un’irriverenza che può avere, ed ha già, conseguenze fortunate.” (da “Lo scrittore argentino e la tradizione” (1951), in Discussione).

Non è un caso che Pierre Menard sia un provinciale di Nîmes, un letterato che, scrivendo dalle periferie, è abilitato ad usare i temi del “centro”, quelli classici, è abilitato a leggere dalla periferia, ad interpretare e riscrivere, arricchendolo, rendendolo “più sottile”, un classico, Il Don Chisciotte di Miguel de Cervantes.

Borges nel 1939, dalla periferica Argentina, ha elaborato, con “Pierre Menard”, questo racconto geniale e meraviglioso, ricco di ironia e lungimiranza, una teoria della lettura, che è anche traduzione, traduzione creativa, interpretazione, dislocamento ed anacronismo, intertestualità,  negazione dell’autore, negazione dell’”originale”, ribaltamento del rapporto gerarchico tra “scrittura” e “riscrittura”, negazione del ”testo definitivo”, una teoria talmente feconda, che ha stimolato e prodotto infiniti sviluppi filosofici e filologici sui temi da lui posti, che a decorrere dalla fine degli anni sessanta (con circa trent’anni di ritardo), ancor oggi sono in pieno svolgimento.

Ciò costituisce, chissà, un’eccezione alla sua regola: l’”originale” non viene superato quando reca la scintilla dell’intuizione geniale.

 

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J. L. Borges: Pierre Menard, autore del «Chisciotte». (riflessioni su)ultima modifica: 2016-12-21T21:27:21+01:00da lettore2015

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