J. L. Borges: Fervore di Buenos Aires (1923) (riflessioni su).

L’itinerario ascetico del poeta in Fervore di Buenos Aires (1923) di J. L. Borges

 

di  Valerio Ferlito

 

  1. Introduzione

In un precedente scritto[1], abbiamo esaminato come Borges indaghi il processo di accostamento al mistero nella creazione artistica.

Emergevano alcuni elementi peculiari della sua formazione spirituale e culturale, che si riflettono sulla produzione letteraria, connotandola in modo costante: l’essenziale scetticismo, l’immanentismo panteista, la tesi dell’inadeguatezza del linguaggio a descrivere la realtà, la tensione molteplice/uno, la conoscenza affettivo-intuitiva come solo mezzo per cogliere l’unità nel molteplice.

In quello scritto, rilevavamo come Borges avesse intuito che l’artista, nel mistero dell’atto creativo, soprattutto poetico, percorre un itinerario simile a quello del mistico naturale, in quanto entrambi anelano ad uno stato di coscienza depurato dai rumori del mondo, il mistico per porsi, nella segreta intimità del Sé, in comunione con l’Assoluto; l’artista, per raggiungere nell’atto creativo, l’essenza delle «cose» dell’universo, la loro origine unitaria (ἀρχή), facendo trasparire insieme la sua anima e la tensione unitiva verso l’universale.

Egli ritiene, infatti, che lo stato creativo poetico e lo stato mistico si pongano entrambi alla base di un tipo di conoscenza affettivo-intuitiva, che coglie la radice unitaria della caotica molteplicità della realtà, divergendo dalla conoscenza analitico-razionale, che, invece, è classificatoria.

Entrambi gli stati condividono un percorso simile di accostamento al mistero, circolare e consistente nell’itinerarium mentis in se ipsum: l’esperienza mistica naturale, verso l’esse sostanziale dell’anima fruito come mistero dell’Assoluto; l’esperienza poetica, verso il mistero dell’atto creativo, che sgorga dalla profondità dell’essere, nel silenzio del Sé, quando la coscienza individuale si pone in comunione intuitiva con la Natura.

Nel saggio Cos’è il Buddismo, scritto nel 1976 insieme con Alicia Jurado, Borges enumera i seguenti elementi condivisi dalla mistica cristiana, da quella islamica e dal buddismo: “a) il disdegno degli schemi razionali, che sono meri mezzi; b) la percezione intuitiva, estranea a quella che possono offrire i sensi; c) la conoscenza assoluta, che ci dà una certezza piena, non confutabile dalla logica; d) l’annichilimento dell’Io; e) la visione del molteplice universo trasformato in unità; f) una sensazione di intensa felicità”.

La sua produzione letteraria e, massime, quella poetica, è tutta protesa nella ricerca dell’unità originaria nel molteplice: il libro assoluto, il poema universale unico, la parola che compendia il mondo.

Per lui, è l’unico Spirito impersonale a ispirare l’artista nell’atto creativo, per cui v’è una radice unitaria ed assoluta in ciascuna opera, che rappresenta, forse, la diversa intonazione di alcune metafore[2].

Ne discende il corollario che l’opera artistica è anonima ed appartiene all’umanità.

Borges, alla stregua di grandi pensatori del passato, è scettico circa la capacità razionale della mente umana di attingere il mistero, cioè la Verità sulle grandi questioni metafisiche: tale pretesa costituirebbe un atto di arroganza e di presunzione (ὓβρις), che viene punito: il detective sicuro di sé e delle proprie facoltà investigative razionali diviene, per lui, simbolo del filosofo dogmatico.

“… non funzionano nemmeno le teorie metafisiche e teologiche che ci dicono chi siamo e che cosa è il mondo”[3].

“E’ azzardato pensare che una coordinazione di parole (altro non sono le filosofie) possa somigliare di molto all’universo”[4].

“Le invenzioni della filosofia non sono meno fantastiche di quelle dell’arte”[5].

“Due tendenze ho scoperte, correggendo le bozze, nei miscellanei scritti che compongono questo libro. Una, a stimare le idee religiose o filosofiche per il loro valore estetico e anche per quel che racchiudono di singolare e meraviglioso. Questo è forse, indizio di uno scetticismo essenziale”[6].

Ed, ancora: “I metafisici di Tlön non cercano la verità, e neppure la verosimiglianza, ma la sorpresa. Giudicano la metafisica un ramo della letteratura fantastica”[7].

Lo scetticismo di Borges non è, però, assoluto: egli, da agnostico, ritiene l’inadeguatezza della ragione umana a raggiungere la conoscenza della Verità; non nega, tuttavia, la possibilità di accostarsi al mistero mediante l’esperienza mistica naturale, cioè mediante un’intuizione sovrarazionale, che, collocandosi ai limiti delle facoltà percettive e razionali umane, limiti di cui occorre acquisire consapevolezza, consenta di raggiungere una conoscenza assoluta, che avvicina l’uomo alla divinità.

“Mi sentii morto, sentii che percepivo astrattamente il mondo; … sospettai d’essere in possesso del senso reticente o assente dell’inconcepibile parola eternità[8].

“Allora avvenne quel che non posso dimenticare, né comunicare. Avvenne l’unione con la divinità, con l’universo (non so se queste parole differiscono)”[9].

“Il primo ponte di Constituciόn e ai miei piedi/Fragore di treni che tessevano labirinti di ferro./Fumo e fischi scalavano la notte,/Che fu di colpo il Giudizio Universale. Dall’invisibile orizzonte/E dal centro del mio essere, una voce infinita/Disse queste cose …”[10].

“Che importa il tempo successivo se in lui fu una pienezza, un’estasi, un meriggio”[11].

Quanto appena riferito rivela la ricezione della dottrina induista, di quella buddhista e di quella sufi, con particolare riferimento a quella del poeta mistico Attar[12].

Queste tradizioni di pensiero s’incrociano nel ritenere l’esistenza del limite conoscitivo empirico-razionale e nel considerare la coscienza di tale limite – e il conseguente concetto di dubbio -, presupposti del passaggio alla conoscenza intuitiva, operata nell’anima depurata dai condizionamenti esterni e divenuta così idonea, nel silenzio intimo, ad accostarsi al mistero.

 

  1. Il “pensativo sentir

 

Borges sembrerebbe, dunque, esprimere il suo scetticismo, accostando filosofia e teologia alla materia fantastica[13], che è propria dell’arte.

Egli afferma di apprezzare la filosofia per il suo valore estetico, per la sua capacità di suscitare meraviglia[14].

In verità, l’accostamento tra pensiero filosofico – analitico, che si esprime con il linguaggio, ed arte, che, nella fase creativa, scaturisce da emozioni percepite dall’artista col cuore (nell’accezione sufica[15] del termine) e, nella fase fruitiva, le suscita mediante immagini di nuovo rivolte al cuore, costituisce un’importante peculiarità della sua opera, connotata dal costante sforzo di ridurre ad unità la molteplicità del mondo, fonte del senso di smarrimento e di angoscia dell’uomo.

La sintesi della facoltà di elaborare il pensiero logico-deduttivo con quella di intuire la realtà in modo sovrarazionale (uno intelligendi actu[16]), è stata da Borges elaborata già nel 1921[17] ed espressa nel 1925, in una splendida poesia della raccolta Luna de enfrente (Luna di fronte), intitolata Casi juicio final (Quasi giudizio finale), che assume valore di manifesto poetico:

 

“[…]

En mi secreto corazón yo me justifico y ensalzo:

He atestiguado el mundo; he confesado la rareza del mundo.

He cantado lo eterno: la clara luna volvedora y las mejillas que                                                                                                                [apetece el querer.

[…]

He trabado en fuertes palabras ese mi pensativo sentir[18] que                                                                             [pudo haberse disipado en sola ternura.

[…][19]

 

(Nel segreto del mio cuore io mi giustifico e mi esalto:/Ho testimoniato il mondo; ho confessato la rarità del mondo./Ho cantato l’eterno: la chiara luna che ritorna e le guance che desidera l’amore. //Ho fermato in salde parole questo mio pensativo sentir che avrebbe potuto dissiparsi in mera tenerezza[20].)

In questi pochi versi, sono racchiusi pregnanti significati: il riferimento al luogo dell’anima in cui si forma l’immagine poetica, luogo nel quale il poeta si raccoglie per intuire l’essenza delle cose: il cuore; l’oggetto poetico: il mondo, l’eternità, oggetti metafisici; il riferimento al modo di cui il poeta-hacedor[21] può esprimere l’origine unitaria della molteplicità, mediante l’immagine poetica, non mediante il linguaggio, il quale, essendo successivo, è inidoneo a descrivere in un’istantanea la complessità del molteplice.

Qui l’”eterno” è da Borges evocato con l’immagine della luna che ritorna sempre su sé stessa e con quella dell’amore, sentimento allusivo all’eternità.

Borges ha così disegnato i confini di ciò che, per lui, è la poesia: una creazione dell’artista che si sforza di raggiungere, da pallido dio, la Verità e di esprimere l’emozione dell’atto creativo con il linguaggio dell’arte, mediante l’immagine poetica, che suscita nel fruitore, grazie a rimandi allusivi, un’emozione simile a quella vissuta dall’hacedor, emozione che identifica l’esperienza estetica.

La tensione verso l’universale, il desiderio metafisico dell’artista, il suo «pensativo sentir» non comportano che l’opera d’arte devii dalla sua peculiare funzione di suscitare emozioni, per tradursi in strumento di conoscenza logico-concettuale.

L’opera d’arte sintetizza nel dato sensibile, nell’immagine, nel suono, nell’immagine poetica, l’universalità del concetto, la fa vedere, senza interpretarla.

Essa, da un lato, presenta all’intuizione unificante l’immagine totale dell’universalità del concetto, per altro verso, non offrendone la spiegazione, manifesta una tensione conoscitiva insoddisfatta ed indica il limite alla conoscenza concettuale, condizione della precarietà dell’uomo.

Entro questi confini, Borges coniuga, poetando, filosofia ed arte e la sua produzione testimonia il  costante sforzo di raggiungere il poema assoluto, quello composto da una sola parola, che decifra l’universo[22].

Il tragitto da lui compiuto nell’arco della sua vita di artista è caratterizzato, come emerge dall’esame dell’evoluzione della sua opera poetica, dalla circolarità, dall’itinerarium mentis in se ipsum, da un crescente ripiegamento su sé stesso, dalla graduale introduzione nel suo mondo poetico, con misura, discrezione e pudore, dell’elemento intimistico, mai languido, in coerenza con l’insegnamento delle filosofie orientali cui abbiamo accennato e, in particolare, del sufismo, secondo cui l’uomo può incontrare la Verità nel suo Sé profondo, in una concezione del mondo immanentistico-panteista[23], nella quale l’atto creativo del poeta somiglia all’itinerario ascetico del mistico naturale.

Egli, da idealista, rievoca il «suo» mondo, impregnato di cultura, nel quale la conoscenza della realtà è filtrata più dalla lettura che dall’esperienza diretta delle «cose», e gli stimoli che sollecitano alla creazione dell’opera poetica, sono  metafisici o legati a «cose» del mondo divenute immateriali, elaborazioni del pensiero.

La sua produzione poetica, dunque, dalla prima (1919) all’ultima (1985), presenta un comune denominatore: è la sua «rappresentazione», come per l’amato Schopenhauer (che forse decifrò l’universo)[24], «il mondo è mia rappresentazione»[25].

Il percorso circolare di Borges è reso evidente dalla circostanza che, in un primo tempo (1919-1930), la sua poesia è soprattutto legata a stimoli concreti: la patria, Buenos Aires, i sobborghi, il patio, il giardino, il pozzo, una donna, che, pur se rielaborati e divenuti immateriali come in un sogno, rivelano una proiezione verso l’esterno, un viaggio nel mondo.

Successivamente, dopo una lunga pausa (1930-1960), durante la quale egli produsse soprattutto racconti e saggi, la sua poesia è divenuta sempre più intellettuale, metafisica ed intimistica, rispecchiando inquietudini personali, viepiù connotate da un ritorno su sé stesso.

Sul piano formale, la prima poesia, dopo una breve fase ultraista, mai sentitamente accolta, è, comunque, più caratterizzata dalla ricerca della sonorità della parola; successivamente, lo stile si fa più sobrio, più classico, la parola diviene più essenziale, simbolica, il linguaggio privilegia l’uso di termini comuni della quotidianità.

 

  1. L’immagine poetica

 

La tensione verso l’universale, verso la Legge del mondo, il desiderio costante di decifrare il caos, riducendolo a cosmo, congiunti con la coscienza dell’inadeguatezza del linguaggio a descrivere l’unità, producono in Borges, da un lato, un costante sforzo di ricerca della proprietà della parola di evocare immagini, sì da consentire l’espressione della comunione emotivo-intuitiva realizzatasi nel profondo del Sé, con la legge dell’universo, con l’essenza delle «cose»; dall’altro, la disperazione del poeta che avverte la mancanza dello strumento idoneo[26].

Non si tratta, come detto, della concettualizzazione del Vero, che, per lo scettico Borges, risulta impossibile, quanto dell’attingimento immaginativo, in un’unica ed unificante visione, dell’idea archetipica, della cosa in sé, del noumeno, conseguito per via d’intuizione unitiva.

La parola che suscita nell’intimo della coscienza un’immagine, che, a sua volta, con il suo contenuto simbolico vitale, rinvia, per allusione, all’essenza universale delle cose del mondo, alla radice unica di esse, all’ ”ἀρχή”, costituisce l’immagine poetica.

Essa consente di “vedere” la Legge ordinamentale del mondo, senza spiegarla, trattandosi di un’immagine, non di un concetto, e, tuttavia, questa sua capacità di esporre, di indicare l’universale sotteso alla cosa, il suo archetipo, conferisce alla poesia una capacità veritativa che l’accosta alla mistica, facendole oltrepassare i limiti del linguaggio e della «rappresentazione».

La congruenza di obiettivi tra poesia e metafisica fonda l’affermazione di Borges secondo cui la filosofia è una branca della letteratura fantastica, affermazione icasticamente reiterata nella locuzione unificante: “pensativo sentir”.                                La poesia di Borges è, perciò, “intellettuale” o “metafisica”, essa è sintesi di “álgebra y fuego”[27]; in altri termini, essa stabilisce uno speciale rapporto tra mito (μῦθος) e ragione (λόγος), tra narrazione per immagini in forma di mito (μυθολογεῖν) ed espressione di concetti con il discorso.

“Perché al principio della letteratura è il mito, e così alla fine”[28].

“La radice del linguaggio è irrazionale e di carattere magico. Il danese che articolava il nome di Thor o il sassone che pronunciava quello di Thunor non sapevano se quelle parole significavano il dio del tuono o il fragore che tien dietro al lampo. La poesia vuol tornare a quell’antica magia”[29].

“La parola sarebbe stata all’inizio un simbolo magico che l’usura del tempo ha deprezzato. Il poeta avrebbe la missione di restituire alla parola, almeno parzialmente, la sua primitiva e oggi nascosta virtù. Due doveri avrebbe ogni verso: comunicare un fatto preciso e toccarci fisicamente, come la vicinanza al mare”[30].

“Mi è stata destinata quella che suole chiamarsi poesia intellettuale. L’espressione è quasi un ossimoro; l’intelletto (la veglia) pensa mediante astrazioni, la poesia (il sogno) mediante immagini, miti o favole. La poesia intellettuale deve intrecciare gradevolmente questi due processi. Così fa Platone nei suoi dialoghi […]”[31].

La sintesi e il concorso dell’elemento razionale con quello intuitivo-emozionale nella creazione poetica (ποίησις), fondano il suo valore “noetico” e rimandano alle dottrine del pensiero orientale, che sono compositive, come rivela l’equilibrio tra μῦθος e λόγος rinvenibile negli antichi testi religiosi (purāṇa) di quelle civiltà.

Sul piano espressivo, la musicalità del verso, tendendo alla fusione tra forma e contenuto, come ancor più compiutamente avviene nella musica, indica, da un lato, il percorso verso l’Unità, e dall’altro, sposta il baricentro della comunicazione dal concetto alla sensazione, dall’intelletto al cuore.

Borges attribuisce, dunque, valore essenziale al mondo dell’intuizione e del sentimento e al loro particolare statuto conoscitivo, nella ποίησις  da cui discende il ricorso a forme evocative o allusive (simboli, immagini) sostitutive dei concetti, forme che fanno capo all’emozione, ricche di energia vitale, capaci di agire sulla psiche in modo spontaneo ed immeditato, recanti valore “noetico”[32].

D’altro canto, intuizione e concetto rinviano a due modi della conoscenza: l’esperienza e il giudizio.

L’esperienza è una modalità conoscitiva precedente al concetto; secondo Husserl[33] (1859-1938), essa sarebbe una «evidenza ante-predicativa», in cui le «intuizioni» sono autonome dal giudizio e dalla sua modalità espressiva: il linguaggio.

Si tratta, ancora una volta, di una tesi coerente con la filosofia induista, nella quale con il termine sanscrito “anubhava” si indica l’”intuizione senza concetto”.

Borges afferma: “Possiamo arrivare al concetto che la poesia è l’esperienza estetica”.[34]

E, più avanti: “Credo che la poesia sia qualcosa che si sente, e se voi non sentite la poesia, se non avete il senso della bellezza, se un passo non vi suscita il desiderio di sapere che cosa è successo dopo, l’autore non è per voi. […] Così ho insegnato attenendomi al fattore estetico, che non richiede definizioni. Il fattore estetico è qualcosa di così evidente, di così immediato, di così indefinibile come l’amore, il sapore della frutta, l’acqua. Sentiamo la poesia come sentiamo la vicinanza di una donna, o come sentiamo una montagna o un’insenatura. Se la sentiamo immediatamente, a che scopo diluirla in altre parole che senza dubbio saranno più deboli delle nostre sensazioni”?[35]

E, infine: “Per me la bellezza è una sensazione fisica, qualcosa che sentiamo con tutto il corpo. Non è il risultato di un giudizio, non arriviamo a lei per mezzo di regole; la sentiamo o non la sentiamo”[36].

Intuizione, dunque, immediatezza ed esaustività della conoscenza intuitiva, che non richiede alcuna spiegazione.

L’immagine poetica, rinviando all’essenza della cosa, alla cosa in sé, tramite un processo evocativo-allusivo, differisce dalla metafora, che stabilisce un nesso tra cose appartenenti al mondo fenomenico, al mondo dell’illusione, della «rappresentazione».

Essa allude, invece, al mistero.

In Borges, ad esempio, tra l’altro, a ciò che sta dietro lo specchio: alla morte.

“Per il decesso di qualcuno/-mistero il cui vacante nome posseggo e la cui realtà non controlliamo-/”[37].

Io, che sentii l’orrore degli specchi/non solo in faccia al vetro impenetrabile/dove finisce e inizia, inabitabile,/l’impossibile spazio dei riflessi/”[38].

“Chi è il mare, io chi sono? Lo saprò/Il giorno che tien dietro all’agonia”[39].

“Giungo al centro,/alla mia chiave, all’algebra,/al mio specchio./Presto saprò chi sono.”[40].

Due osservazioni sono sollecitate dai versi citati: la prima, che la morte segna, per Borges, un passaggio dal molteplice all’Uno.

Prima della morte, dinanzi allo specchio, c’è il mondo molteplice, la duplicazione o la moltiplicazione, c’è “l’inconcepibile universo”[41], il labirinto; dopo, dietro lo specchio, c’è la Verità, l’Uno, la Legge dell’universo, “l’indecifrabile radice”, il cosmo.

“Morti, forse saremo per sempre,/quando la polvere sarà tornata polvere,/l’indecifrabile radice/ dalla quale per sempre crescerà,/sia equanime sia atroce,/ il nostro solitario cielo o inferno”[42].

L’altra osservazione consiste nel rilievo che Borges allude ad una sopravvivenza spirituale alla morte, così conferendo dimensione religiosa al suo pensiero.

“Misterioso gioco di scacchi la poesia, la cui scacchiera e i cui pezzi cambiano come in un sogno e sul quale mi chinerò quando sarò morto”[43].

La poesia, dice Borges, è esperienza estetica, esperienza di un’emozione suscitata dall’immagine poetica.

Egli indica, così, la via attraverso cui la poesia può mostrare la Legge dell’universo, l’assoluto, la verità.

Già per Platone, il bello come esperienza estetica del particolare consentiva di raggiungere l’Idea universale di bello[44] e, questa, in quanto armonia e proporzione, esprimeva la Legge ordinatrice del cosmo.

L’Idea universale di bello, siccome perfezione, coincide con il bene e con la verità.

La poesia che attinge il bello reca, dunque, un contenuto di verità, che riduce, per via intuitiva, la molteplicità delle illusorie apparenze del mondo all’unità originaria (ἀρχή).

In tal modo, la poesia rivela un valore mitico: ci riconduce alle origini.

L’immagine poetica, frutto dell’emozione creativa, spirituale, vissuta dall’artista nel silenzio del suo intimo, del suo Sé profondo posto in comunione con la natura, ha la capacità di suscitare nel lettore un’emozione simile a quella da cui scaturì (esperienza estetica), predisponendolo, mediante una capacità evocativa ed allusiva, a cogliere, immaginativamente, sprazzi della verità, dell’Idea, del noumeno, pur essendo immagine particolare della realtà.

L’intuizione creativa, messa in movimento dall’emozione spirituale, consente al poeta di attingere nel suo Sé profondo aspetti delle cose di cui egli ha fatto esperienza e che sono entrati in risonanza con la parte più intima della sua anima, tramutandoli in immagini che ne mostrano l’universalità.

Infatti, l’anima (Atman) è il tutto (Brahman) e da essa possono emergere sprazzi della conoscenza del tutto quando il poeta (o il mistico), messi a tacere i rumori del mondo, raccogliendosi in Sé, riesca a vedere, come in sogno, l’idea universale della specifica realtà.

Il poeta esprime questa esperienza profonda con la creazione dell’opera d’arte; il mistico, incontrata nel suo intimo la Luce, non può narrarne se non, anch’egli, attraverso la poesia, cioè l’immagine.

Con la sua opera, dunque, il poeta mostra insieme l’idea della cosa e la sua anima.

 

  1. L’itinerario poetico: la poesia giovanile di Fervore di Buenos Aires

 

Lo studio dell’evoluzione dell’opera poetica di Borges consente di verificare come la sua costante tensione verso la radice unitaria della realtà, dispiegatasi in circa sessant’anni di produzione lirica, si sia concretizzata nella ricerca tenace, difficile e, a volte, anche frustrante, dell’immagine-simbolo, capace di esprimere, in modo intuitivo, l’origine, l’ἀρχή.

La ricerca dell’immagine-simbolo costituisce il filo rosso che lega tutta la produzione poetica di Borges ed esprime la sua tensione metafisica.

L’immagine poetica realizza in Borges la sintesi dialettica degli opposti, attingendo, così, per brevi sprazzi, l’unità.

Essa evolve dal 1923 con Fervor de Buenos Aires, al 1985 con Los Conjurados, dal valore simbolico della metafora ultraista, talvolta eretta ad immagine poetica nell’accezione prima chiarita, al simbolo concettuale peculiare del poeta, alla sua cifra personale, privata ed ermetica, quasi esoterica, la cui intuizione illumina la sua opera, conferendole una pienezza che supera il piacere derivante dalla pur fulgida bellezza e che Borges definisce “esperienza estetica”, appartenendo al mondo dell’affettività, dei sentimenti.

La prima raccolta di poesie, Fervor de Buenos Aires (1923), come si evince dal titolo, è dedicata alla città natale di Borges, rivissuta nella soggettività del poeta, nella sua memoria.

Questi, infatti, era stato costretto da esigenze familiari ad allontanarsi da essa, all’età di quindici anni per recarsi in Europa, e aveva potuto farvi ritorno alla fine del 1921, all’età di 22 anni.

L’esilio europeo, durato sette anni, aveva accentuato il suo sentimento di affetto per la città natale, facendo riemergere, come preziosi, i ricordi dell’infanzia.

Si tratta, dunque, di una realtà rammemorata come in sogno, ma con l’esaltazione procurata dal  ritrovamento dell’oggetto d’amore (donde il fervore).

La versione originale di Fervor (1923) comprendeva 45 liriche, oltre ad un prologo ed un congedo.

Borges rivide in più occasioni la raccolta: quella che leggiamo oggi, del 1969, è formata da 33 liriche ed ha subito modifiche nel prologo e in diversi testi poetici, di cui Borges “ha mitigato gli eccessi barocchi, ha limato le asperità, ha cancellato sentimentalismi e vaghezze”[45].

La poesia che apre la raccolta, Las calles (le strade), presenta una sorprendente convergenza di temi indicanti, in mirabile sintesi, la inquietudine metafisica del poeta:

 

“Las calles de Buenos Aires

ya son mi entraña.

No las ávidas calles,

incόmodas de turba  y de ajetreo

sino las calles desganadas del barrio,

casi invisibles de habituales,

enternecidas de penumbra y de ocaso

y aquellas más afuera

ajenas de árboles piadosos

donde austeras casitas apenas se aventuran,

abrumadas por inmortales distancias,

a perderse en la honda visiόn

de cielo y de llanura.”

 

“Le strade di Buenos Aires/ormai sono le mie viscere./Non le avide strade,/scomode di folla e di strapazzo/ma le strade indolenti del quartiere,/quasi invisibili poiché abituali,/intenerite di penombra e di crepuscolo/e quelle più fuori mano/libere da alberi pietosi/dove austere casette appena si avventurano,/schiacciate da immortali distanze,/a perdersi nella profonda visione/di cielo e di pianura.”[46]

E’ dichiarata l’interiorizzazione della città nella sua memoria; di quella parte periferica di essa, nella quale Borges aveva vissuto da bambino (il quartiere di Palermo), al confine Nord occidentale con la pampa sconfinata, nella quale accadevano “tramonti giganteschi”[47].

Borges canta luoghi abituali, invisibili ai più, che costituiscono per lui fonte di intensa emozione, presupposto della creazione poetica.

Nei primi 13 versi, egli presenta alcune immagini-simbolo allusive al problema metafisico fondamentale, che già lo inquietava: il rapporto tra la molteplicità del mondo illusorio e caotico (il labirinto) e il suo principio ordinatore unitario, l’assoluto.

Nell’opera di Borges, soprattutto in quella poetica, le immagini del sobborgo della città (arrabal  ed anche orillas) e della pampa sconfinata simboleggiano l’infinito, l’assoluto; cosicché, il rapporto tra il centro della città, “avido di folla e di strapazzo”, e le indolenti strade della periferia, che si allungano nella pampa sconfinata, richiama quello tra l’illusorio mondo caotico (labirinto) e legge ordinatrice, principio unitario che esprime l’idea delle cose, la loro essenza.

“He visto un arrabal infinito donde se cumple una insaciable inmortalidad de ponientes./”[48].

(Ho visto un sobborgo infinito dove si compie un’insaziata immortalità di tramonti).

Le immagini dell’occaso e del ponente simboleggiano anch’esse, nella sua poesia giovanile, l’infinito nella dimensione temporale (“insaziata immortalità di tramonti”), in quanto richiamano, con la loro ciclicità, l’immortalità dell’uomo come specie: onde il tramonto di oggi è lo stesso che videro gli antenati e che vedranno i posteri.

Ma, insieme, operano un rinvio alla caducità della vita dell’uomo (angosciante senso del limite).

Il percorso del poeta verso l’intuizione dell’unità originaria, richiede che si attenuino i rumori del mondo, per propiziare il raccoglimento dell’Io nel profondo e segreto del Sé, dove avviene la comunione affettivo-intuitiva con la natura.

Il percorso è simboleggiato dalle strade del sobborgo, strade silenziose, libere da alberi pietosi, cioè prive di sentimentalismi[49], dove l’Io si predispone alla comunione, all’accoglienza, rimasto solo con sé stesso, informato all’austerità, strade alle quali si giunge con difficoltà, all’esito di un duro percorso (“austere casette […]/schiacciate da immortali distanze,/”), e donde può cogliersi l’infinito (“a perdersi nella profonda visione/di cielo e pianura./”).

Splendida, icastica, l’immagine elaborata dall’hacedor per alludere al percorso della creazione artistica verso la Verità, verso l’Uno.

Il poeta aggiunge:

“Son para el solitario una promesa

porque millares de almas singulares las pueblan,

únicas ante Dios y en el tiempo

y sin duda preciosas.

Hacia el Oeste, el Norte y el Sur

se han desplegado – y son también la patria – las                                                                                                                                  [calles:

ojalá en los versos que trazo

estén esas banderas.”

(Sono per il solitario una promessa/perché migliaia di anime singole le popolano,/uniche dinanzi a Dio e nel tempo/e senza dubbio preziose./Verso l’Ovest, il Nord e il Sud sono rivolte – e sono anche la patria – le strade;/voglia Iddio che nei versi che compongo/siano queste bandiere).

Egli descrive così, in modo più dettagliato, quei percorsi (le strade), compiuti dal poeta in solitudine, nel silenzio del Sé, come promessa di una rivelazione: esse sono popolate da migliaia di anime (molteplicità), che, dinanzi a Dio e nel tempo, sono un’anima sola.

E’ un richiamo della concezione dell’anima nel pensiero di Plotino.

L’anima, terza ipostasi dell’Uno, costituisce la mediatrice tra mondo sensibile e mondo intelligibile. Essa si articola in tre livelli: l’anima universale (ὅλη ψυχή), pura ipostasi dell’Intelletto, separata dal mondo sensibile; l’anima del mondo (τοῦ παντός ψυχή), la cui parte superiore permane nell’intelligibile, mentre quella inferiore è inviata a creare e governare il mondo; le anime particolari (ἡμέτερα ψυχή), che animano e vivificano i singoli corpi e, tra esse, le anime degli uomini.

L’essenza dell’anima è una, ma le anime particolari, in quanto animano i corpi, sono molteplici: l’anima è insieme unità e molteplicità, divisa e indivisa, unica e presente in più luoghi.

In altri termini, la sua natura è molteplice, perché molti sono gli esseri; eppure è anche una, perché unitario è il principio che tutto unifica e governa. L’anima è Uno-e-Molti.

Borges deriva, in modo figurato, da una riflessione del pensiero filosofico sul rapporto uno/molti, un’immagine poetica: le strade della periferia, percorse dal poeta solitario, simboleggiano il percorso che conduce, attraverso la creazione artistica, all’intuizione unitiva della radice delle cose.

Quelle strade siano la sua bandiera e la sua patria: la sua produzione poetica non prescinderà più da questo tema.

Nel prologo alla prima edizione della raccolta Fervor de Buenos Aires (1923), egli chiarisce il significato che il termine «patria» assume nel libro: “La mia patria – Buenos Aires – non è il dilatato mito geografico che queste due parole segnalano: è la mia casa, le periferie amiche, e insieme con queste strade e ritiri, che sono amata devozione del mio tempo, ciò che in esse sa di amore, di pena e di dubbio”.

In altri termini, più che luogo geografico, è un luogo intimo, un luogo dell’anima.

Si noti come Borges, nell’indicare la direzione delle strade, ometta l’Est, cioè l’ortus solis.

La ragione è da lui stesso indicata nella poesia Amanecer (Alba), sempre in Fervor.

L’alba è orribile e minacciosa, perché offende le strade taciturne (i percorsi che il poeta compie per raggiungere l’unità originaria) e, con il risveglio, fa rivivere la tremenda congettura di Berkeley e di Schopenhauer, secondo cui la realtà (divenuta visibile alla luce del giorno) è solo una vuota «rappresentazione», un atto della mente, senza consistenza né volume.

Poiché le idee, in quanto prodotto della mente, non sono eterne (fuori dal tempo), ma solo immortali, in relazione all’uomo come specie, si corre il pericolo che, all’alba, “solo qualche nottambulo conserva,/cenerina e abbozzata appena,/l’immagine delle strade/”, cioè dei percorsi che conducono fuori dalla rappresentazione, dalla molteplicità illusoria del mondo, verso il principio unitario.

Non sembra che la ragione di tale omissione dipenda dalla circostanza geografica che ad est di Buenos Aires vi sia il mare, anziché la pampa: infatti, per Borges, in coerenza con Rafael Cansinos Asséns, che egli considerava suo amico e maestro, l’arrabal, e la pampa che lo circonda, costituiscono, al pari del mare, un simbolo dell’infinito[50].

Ancora in Fervor, altra splendida e complementare poesia, che offre le immagini poetiche già incontrate in Las calles, ma riprospettate in un gioco immaginativo sorprendente, rivelatore di potente creatività, è Calle desconocida (Strada sconosciuta):

“Penumbra de la paloma

llamaron los hebreos a la iniciaciόn de la tarde

cuando la sombra no entorpece los pasos

y la venida de la noche se advierte

como una música esperada y antigua,

como un grato declive.

En esa hora en que la luz

tiene una finura de arena,

di con una calle ignorada,

abierta en noble anchura de terraza,

cuyas cornisas y paredes mostraban

colores blandos como el mismo cielo

que conmovía el fondo.

Todos – la medianía de las casas,

las modestas balaustradas y llamadores,

tal vez una esperanza de niña en los balcones

entrό en mi vano corazόn

con limpidez de lágrima.

Quizá esa hora de la tarde de plata

diera su ternura a la calle,

haciéndola tan real como un verso

olvidado y recuperado.

Sόlo después reflexioné

que aquella calle de la tarde era ajena,

que toda casa es un candelabro

donde las vidas de los hombres arden

como velas aisladas,

que todo inmeditato paso nuestro

camina sobre Gόlgotas.”

“Penombra della colomba/chiamarono gli ebrei l’inizio della sera/quando il buio non rallenta i passi/e si avverte l’arrivo della notte/come una musica sperata e antica,/come un gradevole pendio./In quell’ora in cui la luce/è fine come sabbia/presi per una strada ignota/che si allargava in nobile terrazza/e aveva le facciate e gli ornamenti/di tinte delicate come il cielo/sullo sfondo emozionante./Tutto – quelle case modeste,/la sobrietà delle ringhiere e dei battenti,/forse una speranza di ragazza sui balconi -/entrò nel mio deserto cuore/con la purezza di una lacrima./Sarà stata quell’ora della sera d’argento/a dare tenerezza alla strada/rendendola reale come un verso/dimenticato e ritrovato./Solo più tardi riflettei/che quella strada della sera mi era estranea,/che ogni casa è un candelabro/dove le vite degli uomini ardono/come candele isolate,/che ogni immeditato passo nostro/cammina sopra i Golgota”.

Il titolo rivela che il percorso verso l’assoluto è ignoto (strada sconosciuta).

Esso è propiziato dall’ora del tramonto, dalla sera, quando tutto induce al raccoglimento, quando i colori diventano tenui, come il cielo in quell’ora, ed i suoni giungono universali, come una musica antica.

Tutto crea emozione, presupposto della creazione artistica, nel cuore del poeta, che dev’essere libero da passioni, puro, per entrare in profonda e segreta sintonia con le cose del mondo.

Quel percorso è un viaggio intimo, nel profondo del Sé, dove abitano ricordi e sentimenti (“un verso/dimenticato e ritrovato.”): è un percorso «immeditato», spontaneo ed ha il valore di una prova (Golgota).

L’atto del riflettere (come fa l’aborrito specchio moltiplicatore) allontana l’anima del poeta dall’emozione creativa: esso appartiene al mondo reale, molteplice, illusorio, caotico ed indecifrabile, al labirinto, non a quello sovrarazionale dell’intuizione unitiva con il cosmo.

Borges riprende anche qui un’immagine offertagli dal pensiero di Plotino: “ogni casa è un candelabro/dove le vite degli uomini ardono/come candele isolate,/”.

Plotino ricorre alla metafora dell’irraggiamento dell’anima nella generazione del mondo molteplice, anima che, a sua volta, è perennemente illuminata dall’Intelletto (νοῦς), che la precede (seconda ipostasi dell’Uno).

In altri termini, una candela perennemente accesa ed inestinguibile, l’intelletto, dona, per sovrabbondanza, luce e calore dall’alto all’anima universale, che la cede verso il basso, illuminando e dando vita alle cose del mondo e, insieme, alle anime particolari, tra cui quelle degli uomini, tra loro distinte, ma della stessa unica essenza dell’anima universale (uno-e-molti).

Con l’immagine del candelabro su cui bruciano le singole vite degli uomini come candele isolate, Borges allude nuovamente alla tematica del passaggio dal molteplice all’uno.

Il poeta accenna a due momenti dialetticamente opposti (“Solo più tardi riflettei …”): dapprima, s’incammina, senza una ricerca riflessiva, sul percorso ascetico verso l’unità, ed è, questo, un momento di conoscenza emotivo-intuitiva della realtà, propiziata da circostanze idonee a suscitare emozioni nel profondo del Sé e caratterizzata dalla solitudine (“/entrò nel mio deserto cuore/”) e dall’austerità (“quelle case modeste,/la sobrietà delle ringhiere e dei battenti,/”); in questa prima fase, in modo «immeditato» e a costo di una dura prova (Golgota) egli può pervenire alla creazione artistica e scorgere la legge del mondo.

Dopo, riflette: adesso la strada non gli appartiene più, gli è estranea, perché non con la filosofia, cioè con la riflessione razionale, può raggiungersi la verità.

Borges, tuttavia, come evidenziato, tende a risolvere l’opposizione dialettica nel suo pensativo sentir, operando la sintesi di “álgebra y fuego”, di ragione (λόγος) e mito (μῦθος).

Arrabal (sobborgo) è il titolo della quindicesima poesia della raccolta: una poesia splendida, carica di emozionanti rimembranze, riaccese nell’anima del poeta dal ritrovato contatto con il quartiere nativo di Palermo, quartiere periferico a nord-ovest di Buenos Aires, confinante con la pampa.

Ma, su un piano sotteso, allegorico, la poesia allude al percorso creativo del poeta, al suo desiderio metafisico, ponendosi, in tal modo, in linea di continuità con le altre appena esaminate.

“El arrabal es el reflejo de nuestro tedio.

Mis pasos claudicaron

cuando iban a pisar el horizonte

y quedé entre las casas,

cuadriculadas en manzanas

diferentes e iguales

como si fueran todas ellas

monόtonos recuerdos repetidos

de una sola manzana.

El pastito precario,

desesperadamente esperanzado,

salpicaba las piedras de la calle

y divisé en la hondura

los naipes de colores del poniente

y sentí Buenos Aires.

Esta ciudad que yo creí mi pasado

es mi porvenir, mi presente;

los años que he vivido en Europa son ilusorios,

yo estaba siempre (y estaré) en Buenos Aires.”

“Il sobborgo è il riflesso del nostro tedio./I miei passi claudicarono/quando stavano per calpestare l’orizzonte/e restai tra le case,/quadrangolare in isolati/differenti ed uguali/come se fossero tutte quante/monotoni ricordi ripetuti/di un solo isolato./L’erbetta precaria,/disperatamente speranzosa,/spruzzava le pietre della strada/e vidi in lontananza/le carte di colore del ponente/e sentii Buenos Aires./Questa città che credetti mio passato/è il mio avvenire, il mio presente;/gli anni vissuti in Europa sono illusori,/io sono sempre stato (e starò) a Buenos Aires.”

L’interiorizzazione del significato del termine arrabal è resa palese dal secondo e dal terzo verso:

“I miei passi claudicarono/quando stavano per calpestare l’orizzonte”.

Il poeta passeggia da solo nelle strade del quartiere, un quartiere tranquillo, periferico, distante dalla frenesia del centro della città, che riflette la noia, l’indolenza degli abitanti, la ripetitività della vita comune (il nostro tedio).

Dal secondo verso, egli passa alla prima persona singolare: l’emozione in lui suscitata dalla passeggiata nel quartiere esprime la tensione personale a superare i confini della periferia, che è divenuta una periferia interiore, dell’anima, los “arrabales del alma”[51].

Più volte, Borges ha indicato lo scostamento tra la sensibilità emotiva del poeta e quella dell’uomo comune: le strade del quartiere sono “[…] quasi invisibili perché abituali […]”[52]; esse sono una promessa “per il solitario”[53]; “Ho detto stupore dove altri dicono soltanto abitudine”[54].

Ma i suoi passi claudicarono quando stavano per calpestare l’orizzonte: il passo verso l’infinito, verso l’assoluto, verso il senso dell’universo, gli è precluso; egli non riesce ad uscire dalla molteplicità del mondo illusorio, dalla «rappresentazione», a compiere il passaggio dal molteplice all’uno.

Rimane, dunque, tra le case, “quadrangolate in isolati/differenti ed eguali/come se fossero tutte quante/monotoni ricordi ripetuti/di un solo isolato”.

La tensione verso l’infinito si ripropone con l’immagine della ripetizione circolare nella memoria: è la dottrina dell’eterno ritorno, che affonda le proprie radici nel pensiero di Pitagora, degli Stoici, per giungere fino a Nietzsche, il filosofo moderno del tempo ciclico.

Borges, secondo uno schema già utilizzato, elabora un’immagine suggerita dal pensiero di Plotino: “L’erbetta precaria,/disperatamente speranzosa,/spruzzava le pietre della strada/”.

L’immagine vitale dell’erbetta è resa dall’ossimoro “disperatamente speranzosa”: per Plotino,  come abbiamo visto, l’anima del mondo e la potenza vitale che ne deriva pervadono l’universo e possiedono un’energia che anima ogni corpo.

L’anima è e non è uno, così anche è e non è molti: essa è uno-e-molti, perché unica è la sua essenza e molteplice la sua presenza nei diversi corpi.

Ciò viene poeticamente espresso da Borges con l’inciso “disperatamente speranzosa”.

L’erbetta, pervasa dall’anima particolare, avverte una spontanea tensione verso l’uno, che è peculiare dell’essenza dell’anima stessa e ciò caratterizza quella strada, che simboleggia il percorso solitario della creazione poetica.

Borges, percorrendolo, vede, nella lontananza (“en la hondura”), le carte che hanno il colore del tramonto e sente Buenos Aires: al termine del percorso creativo, la conoscenza diviene intuitiva ed affettiva.

Meravigliosa, potente convergenza di simboli dell’infinito: La hondura (profondità, lontananza), le carte del truco[55], i colori del ponente, Buenos Aires[56].

Il poeta rafforza il valore simbolico qui attribuito alla città di Buenos Aires.

Essa, di consueto, è immaginata con un centro caotico, espressione dell’indecifrabilità dell’universo, del labirinto, del mondo molteplice ed illusorio della «rappresentazione», ed un sobborgo in periferia, che simboleggia la tranquillità del raccoglimento, la possibilità di raggiungere, con la creazione poetica, l’origine essenziale delle cose del mondo.

Qui l’intera città viene contrapposta ad altro centro illusorio e caotico, l’Europa, onde essa diviene, tutta, simbolo di periferia, di sobborgo del mondo (“los arrabales desmantelados del mundo”)[57], di infinito.

L’immagine è corroborata da quella dell’eternità: Buenos Aires città mitica ed eterna, dove Borges è sempre stato e sempre starà, anche quando, fisicamente, si sia trovato o dovesse trovarsi altrove.

Nel 1921, Borges, trovandosi ancora in Spagna, aveva pubblicato sulla rivista Ultra di Madrid una poesia intitolata Aldea.

Si tratta, dunque, di una lirica appartenente al periodo ultraista spagnolo.

In seguito, egli rinnegò tutte le poesie di quel periodo e le espunse dalle raccolte da lui pubblicate.

Sorprendentemente, invece, inserì in Fervor de Buenos Aires quella poesia, con lievi modifiche, con il nuovo titolo di Campos atardecidos (Campi al tramonto).

La poesia, come vedremo, reca visibili tracce dell’ultraismo, ma, insieme, testimonia ancora una volta, la forte tensione metafisica del poeta.

“El poniente de pie como un Arcángel

tiranizό el camino.

La soledad poblada como un sueño

se ha remansado alrededor del pueblo.

Los cencerros recogen la tristeza

Dispersa de la tarde. La luna nueva

Es una vocecita desde el cielo.

Según va anocheciendo

vuelve a ser campo el pueblo.

 

El poniente que no se cicatriza

aún le duele a la tarde.

Los trémulos colores se guarecen

En las entrañas de las cosas.

En el dormitorio vacío

la noche cerrará los espejos.”

“Il ponente ritto come un Arcangelo/tirannizzò il cammino./La solitudine popolata come un sogno/ha ristagnato intorno al paese./I campanacci raccolgono la tristezza/dispersa della sera. La luna nuova/è una vocina dal cielo./Man mano che annotta ritorna campagna il paese.//Il ponente che non si cicatrizza/ancora duole alla sera./I tremuli colori si riparano/nelle viscere delle cose./Nella camera da letto vuota/la notte chiuderà gli specchi.”

La poesia si apre con un’immagine forte, tipica della retorica ultraista: “Il ponente ritto come un Arcangelo/tirannizzò il cammino”.

Il soggetto non è il poeta viandante che, come in Arrabal, claudica, approssimandosi alla linea dell’orizzonte, che demarca il confine con l’infinito.

Il poeta subisce qui un evento esterno: il sole non è ancora tramontato ed i suoi raggi, illuminando le cose, non gli consentono di uscire dalla molteplicità, dalla «rappresentazione», di varcare la soglia dell’infinito-uno-verità: “Chiara la moltitudine di un ponente/ha esaltato la strada.”[58]

I raggi del sole ancora sopra l’orizzonte gli appaiono come la spada di fuoco dell’Arcangelo che gli sbarra il cammino.

Il poeta è intimidito: in un’intervista con Jean de Milleret del 1967, Borges afferma: “Non ricordo perché, quel tiranizό spaventava un po’ anche me […]”[59].

La solitudine del poeta, popolata di sogni, è rimasta imbrigliata nella periferia, non è riuscita a varcare il confine verso la pampa, verso i campi che circondano la periferia della città e che simboleggiano l’infinito.

Da qui un senso di frustrazione, di tristezza: la sera, l’occaso, non preludono all’intuizione della parola che dice l’universo.

Analogo sentimento si rinviene nella poesia Atardeceres (Tramonti), anch’essa in Fervor: “La mano lacera di un mendicante/accresce la tristezza della sera.”

Anche la luna, come abbiamo visto simbolo dell’eterno[60], è nuova, dunque invisibile, ed è, perciò, una fievole voce lassù nel cielo.

“Ariosto m’insegnò che nell’incerta/luna albergano i sogni, l’inafferrabile,/il tempo che si perde, il possibile/o l’impossibile, ch’è la stessa cosa.”[61]

A misura che annotta, il sobborgo si confonde sempre più con la campagna, con la pampa.

E’ una intensa dialettica tra molteplicità ed unità.

Il poeta ribadisce che la sera non s’è ancora affermata, perché il tramonto non è compiuto: i colori, con l’avanzare dell’oscurità, si rifugiano nel profondo delle cose, che, perdendo la  distinzione indicata dal colore, appaiono uniformi, indifferenziate.

Così pure, la notte chiuderà gli specchi (simbolo della duplicazione, della molteplicità), che riflettono i raggi di luce, mentre si spengono al buio: di nuovo, una dialettica tra opposti, la cui sintesi genera unità.

Le poesie sin qui lette condividono diversi simboli: le strade, i sobborghi, il tramonto, la pampa, la città e rivelano la medesima tensione metafisica.

Llaneza (Semplicità), pur avendo un tema affatto diverso, rivela la costante borgesiana della tensione metafisica verso l’unità.

“Se abre la verja del jardin

con la docilidad de la página

che una frequente devociόn interroga

y adentro las miradas

no precisan fijarse en los objetos

que ya están cabalmente en la memoria.

Conozco las costumbres y las almas

y ese dialecto de alusiones

que toda agrupaciόn humana va urdiendo.

No necesito hablar

ni mentir privilegios;

bien me conocen quienes aquí me rodean,

bien saben mis congojas y mi flaqueza.

Eso es alcanzar lo más alto,

lo que tal vez nos dará el Cielo:

no admiraciones ni victorias

sino sencillamente ser admitidos

como parte de una Realidad innegable,

como las piedras y los árboles.”

(Semplicità).(Si apre il cancello del giardino/con la docilità della pagina/che una frequente devozione interroga/e all’interno gli sguardi/non devono fissarsi sugli oggetti/che già stanno interamente nella memoria./Conosco le abitudini e le anime/e quel dialetto di allusioni/che ogni gruppo umano va ordendo./Non ho bisogno di parlare/né di mentire privilegi;/bene mi conoscono quelli che mi attorniano,/bene sanno le mie ansie e le mie debolezze./Ciò è raggiungere l’eccelso,/quello che forse ci darà il Cielo:/non ammirazioni né vittorie/ma semplicemente essere ammessi/ come parte di una Realtà innegabile,/come le pietre e gli alberi.)

In Llaneza, l’immagine dell’itinerario verso l’unità è suggerita dall’immersione dell’Io nell’intimo delle sue radici, dal ritorno all’origine (itinerarium mentis in se ipsum), dove alberga amicizia e familiarità: il poeta entra in un giardino, spingendo un cancello che non offre resistenza, che si apre così come si sfoglia una pagina interrogata con devozione, dove tutto è già noto, perché fissato nella memoria.

Lì può mettersi a nudo, non teme giudizi, perché chi lo circonda lo conosce e gli vuol bene: si tratta del ricordo degli incontri settimanali con gli amici letterati, che avvenivano a villa Lange, in calle Tronador, nel 1922-1923, ai quali partecipavano, tra gli altri, Norah Lange, poetessa, e la sua cara amica, Concepciόn Guerrero, di cui Borges s’innamorò, essendo corrisposto.

Una condizione simile, che consente di attingere l’eccelso, afferma il poeta, forse potrà ottenersi dopo la morte, quando si passa dietro lo specchio[62], ove cessa la molteplicità e si esce dalla «rappresentazione».

Solo allora, si ritornerà ad essere tutt’uno con la Realtà, come le pietre e gli alberi, nella concezione panteista spinoziana del Deus sive natura, cui Borges rinvia.

Il poeta costituisce una particella della natura creatrice e la sua opera può salvarlo dall’oblio, assicurargli l’eternità.

“Mentre nei nostri manifesti sostenevamo ancora la supremazia della metafora e l’eliminazione della transizione e degli aggettivi decorativi, ciò che volevamo era una poesia essenziale – delle poesie al di là del qui e ora, prive di colore locale e libere dalle circostanze contemporanee. Credo che la poesia Llaneza illustri abbastanza bene quello che io ricercavo”[63].

 

  1. Conclusione

 

Borges amava Fervor de Buenos Aires: ne è prova la circostanza che durante la sua carriera letteraria intervenne a più riprese, ben nove volte, su questo suo primo libro di poesie, espungendo intere poesie e riscrivendo interi versi (circa 400 sui 1000 originari).

La prima edizione (Imprenta Serantes, Buenos Aires, luglio1923) conteneva, come detto, 45 poesie e un prologo di 3 pagine, composti tra il 1921 e il 1922; oggi leggiamo l’edizione Emecé del 1969: si tratta delle sole due edizioni del libro Fervor de Buenos Aires, in quanto, tutte le altre, dalla Losada del 1943, all’Emecé del 1977 sono edizioni delle opere di Borges, o solo poetiche, come Poemas o Obra poetica, o di tutte le opere, come Obras completas[64] .

Nel prologo all’edizione del 1969, Borges afferma: “Penso che Fervor de Buenos Aires prefiguri tutto quello che avrei fatto in seguito. Per ciò che lasciava intravedere, per ciò che in qualche modo prometteva, Enrique Díez-Canedo e Alfonso Reyes lo approvarono generosamente”.

Ed, ancora: “Eppure, quando ci ripenso, mi pare di non essere mai andato molto oltre quel libro. Mi pare che tutto quello che ho scritto in seguito abbia soltanto sviluppato dei temi che avevo trattato lì dentro, e che in tutta la mia vita non abbia fatto che riscrivere quell’unico libro”[65].

Nel prologo all’edizione princeps, egli afferma: “[…] i miei versi vogliono celebrare […] la sorpresa e la meraviglia dei luoghi che attirano le mie passeggiate. Come i latini, che nell’attraversare una boscaglia, mormoravano «Numen inest», qui si nasconde la divinità, il mio verso parla per dichiarare lo stupore delle strade deificate dalla speranza o dal ricordo. Luogo nel quale è trascorsa la nostra vita , a poco a poco si trasforma in santuario”.

La citazione ovidiana[66] allude all’ispirazione del poeta, sollecitata da una forte emozione che, stimolando l’affettività, gli consente di entrare in comunione intuitiva con la natura e di cogliere l’essenza delle cose del mondo.

Nell’Arte amatoria, lo stesso Ovidio afferma il legame tra il Numen e l’ispirazione poetica[67].

Sempre nel prologo all’edizione princeps, Borges aggiunge: “Alla lirica decorativamente visiva e brillante […], ho voluto opporne un’altra, meditabonda, fatta di avventure spirituali e la cui professione di fede è contenuta nelle parole che copio da Sir Thomas Browne (Religio Medici, 1643): «[…] Vi è indubbiamente una parte di divinità in noi, qualcosa che era prima degli elementi, e che non deve omaggio alcuno al sole […] a chi non giunga a comprenderlo manca la parte introduttiva o la prima lezione, e deve ancora cominciare l’alfabeto dell’uomo».

Borges cerca di dire qui, con il λόγος , ciò che nelle liriche affida all’immagine poetica, unico mezzo espressivo idoneo ad oltrepassare i limiti del linguaggio e del ragionamento e a raggiungere l’idea delle cose, la legge ordinatrice dell’universo.

 

[1] Valerio Ferlito, L’accostamento ad Almotasim da “Il Giardino dei sentieri che si  biforcano”, 1941: L’esperienza mistica secondo Borges. (In questo stesso blog)

[2] Borges, La sfera di Pascal, 1951, in “Altre Inquisizioni”.

[3]Borges, La macchina per pensare di Raimondo Lullo, 15/10/1937, in “Testi Prigionieri”, Adelphi, 1998, pag. 165

[4]Borges, Metempsicosi della tartaruga, in “Discussione”, 1932

[5]Borges, Magie parziali del «Chisciotte», 1949, in “La Naciόn”, poi, in “Altre Inquisizioni”, 1952

[6]Borges, Epilogo, in “Altre Inquisizioni”, 1952

[7]Borges, Tlön, Uqbar, OrbisTertius, in “Il Giardino dei sentieri che si biforcano”, 1941

[8]Borges, Sentirsi in morte, in “L’idioma degli argentini”, 1928; poi, in “Storia dell’Eternità”, 1936; infine, in “Nuova confutazione del tempo – Altre Inquisizioni”, 1946

[9]Borges, La scrittura del Dio, in “L’Aleph”, 1949

[10]Borges, Matteo, XXV, 30, in “L’altro, lo stesso”, 1964

[11]Borges, Pagina per ricordare il colonnello Suárez, vincitore a Junín, in “L’altro, lo stesso”, 1964

[12] Farid al-Din Attar (1145-1221), mistico e poeta persiano sufi

[13] Borges, Tlön, Uqbar, Orbis Tertius, 1941, in “Finzioni”

[14] Borges, Epilogo di “Altre Inquisizioni”, 1952

[15]Per una più immediata intellezione del peculiare significato del termine cuore nella filosofia Sufi, ci permettiamo di rinviare al nostro commento a L’accostamento ad Almotasim da “Il Giardino dei sentieri che si  biforcano”, 1941: L’esperienza mistica secondo Borges, in questo stesso blog

[16] Borges, Una rivendicazione della Cabala, 1931, in “Discussione”

[17] Come emergerà dall’esame di alcune poesie della sua prima raccolta: Fervore di Buenos Aires

[18] L’espressione pensativo sentir è contenuta nell’edizione originale del 1925 e nell’edizione Losada del 1943

[19]Il corsivo è nostro

[20] Traduzione dell’autore

[21] Con il termine hacedor, Borges sottolinea il momento creativo del poeta-artefice (ὁ ποιητής, da ποιέω = fare). Egli intitola con questa parola un’importante raccolta di suoi  scritti, in prosa ed in poesia, del 1960

[22] Borges, Parabola del Palazzo, 1960, in “L’artefice”

[23] Sulla questione (problematica) del panteismo sufico, si veda lo studio qui indicato nella nota n. 1

[24]Borges, Altra poesia dei doni, in “L’altro, lo stesso”, 1964

[25]Schopenhauer, Il mondo come Volontà e Rappresentazione, Libro I, par. I

[26]“La materia di cui dispone (il poeta), il linguaggio, è, come afferma Stevenson, assurdamente inadeguata. […] Lavoriamo a tentoni. L’universo è fluido e cangiante; il linguaggio, rigido”. Borges,  Epilogo a “Storia della notte”, 1977

[27]  Borges, Matteo, XXV, 30, in “L’altro, lo stesso”, 1964

[28] Borges, Parabola di Cervantes e Don Chisciotte, 1955, in “L’Artefice”.

[29] Borges, Prologo a  “L’altro, lo stesso”, 1964

[30] Borges, Prologo a “La rosa profonda”, 1975

[31] Borges, Prologo a “La cifra”, 1981

[32] E’ ormai nozione universalmente accettata e condivisa quella dell’”intelligenza delle emozioni”; essa è oggi supportata da vasta letteratura scientifica.

[33] E. Husserl, Esperienza e giudizio, Bompiani, 1995, pp. 70-71.

[34] Borges, La poesia, in “Sette notti”, Conferenze al teatro Coliseo di Buenos Aires, 1977

[35] Borges, ibidem

[36] Borges, ibidem

[37] Borges, La notte che nel sud lo vegliarono, in “Quaderno San Martin”, 1929

[38] Borges, Gli specchi, in “L’artefice”, 1960

[39] Borges, Il mare, in “L’altro, lo stesso”, 1964

[40] Borges, Elogio dell’ombra, in “Elogio dell’ombra”, 1969

[41] Borges, L’Aleph, in “L’Aleph”, 1949

[42] Borges, Qualcuno, in “L’altro, lo stesso”, 1964

[43] Borges, Prologo a “L’altro, lo stesso”, 1964

[44] Platone, Simposio: “[…]cominciando dalle bellezze che si trovano qua, e in nome della bellezza in sé, salire, come se ci si servisse di gradini, da uno a due e da due a tutti i corpi belli, e dai corpi belli ai bei modi di comportamento, e dai modi di comportamento ai begli apprendimenti, e dagli apprendimenti giungere a quell’apprendimento estremo, che altro non è se non l’apprendimento di quella bellezza, e concludere conoscendo cosa è quella bellezza in sé.

[45] Borges, Prologo a “Fervor de Buenos Aires”, 1969

[46] Da Borges, Tutte le opere, Mondadori, 1984

[47] Borges, Buenos Aires, in “Inquisizioni”, 1925

[48] Borges, La mia vita intera, in “Luna di fronte”, 1925; da: Borges, “Tutte le opere”, Mondadori

[49]Abbiamo visto come Borges rifugga dal sentimentalismo: “He trabado en fuertes palabras ese mi pensativo sentir que pudo/haberse disipado en sola ternura. (Ho fermato in salde parole questo mio pensativo sentir che avrebbe potuto/dissiparsi in mera tenerezza). Da Quasi giudizio finale, in “Luna di fronte”, 1925. E, ancora, “Non ho riscritto il libro. Ne ho mitigato  gli eccessi barocchi, ho limato asperità, ho cancellato sentimentalismi e vaghezze”. Dal “Prologo” alla riedizione di “Fervore di Buenos Aires” del 1969. Va, infine, considerato che il percorso di raccoglimento creativo del poeta, alla stessa stregua di quello del mistico, si caratterizza per sentimenti profondi e stabili, propiziati dal silenzio, dall’austerità e dal rigore, non per molli e superficiali sentimentalismi.

[50] “Quattro infiniti attraversano ogni crocevia”, Borges, Buenos Aires, in “Inquisizioni”, 1925. Rafael Cansinos Asséns, El arrabal en la literatura, Madrid, 1924, in “Variaciones Borges”, 8, 1999, p. 30.

[51] Borges,  La Recoleta, in “Fervor de Buenos Aires”, edizione del 1923

[52] Borges, Las calles, in “Fervor de Buenos Aires”, 1923

[53] Borges, ibidem

[54] Borges, Quasi giudizio finale, in “Luna di fronte”, 1925

[55] Nell’omonima poesia, in “Fervore di Buenos Aires” (1923) e nel saggio omonimo in “L’idioma degli argentini” (1928), Borges afferma che l’antico gioco criollo del truco, per la sua ripetitività, evoca generazioni di giocatori ormai invisibili, che si identificano nel gioco, che sono il gioco. Ne deriva, prosegue Borges, che il tempo è una finzione: “Così dai labirinti di cartone colorato del truco, ci siamo accostati alla metafisica: unica giustificazione e finalità di tutti i temi”.

[56] “Io ho usato una volta l’espressione honda ciudad (profonda città), pensando a quelle strade lunghe dei sobborghi che oltrepassano l’orizzonte e lungo le quali il sobborgo va impoverendosi e sgranandosi fuori con la sera; …”. Da Borges, L’essenza criolla in Ipuche, in Inquisizioni, 1925

[57] Borges, Amanecer, in “Fervor de Buenos Aires”, 1923

[58] Borges, Atardeceres (Tramonti), in “Fervor de Buenos Aires”, 1923

[59] Entretiens avec J.L. Borges, Jean de Milleret, edité par Pierre Belfond, Paris, 1967

[60] Si veda, supra, Quasi giudizio finale

[61] Borges, La luna, in “L’artefice”, 1960

[62] Sulla morte, vedi, supra, pag. 7

[63] Borges, Abbozzo di autobiografia, a cura di Norman Thomas Di Giovanni, cap. III, 1970

[64] Per un approfondimento delle varianti introdotte con le versioni succedutesi, si veda: Tommaso Scarano, Varianti a stampa nella poesia del primo Borges, Giardini Editori, Pisa, 1987

[65] Borges, Abbozzo di autobiografia, a cura di Norman Thomas Di Giovanni, cap. III, 1970

[66] Ovidio, Dei fasti, Lib. III, Cap. III, distico 148: “Lucus Aventino suberat niger ilicis umbra,/Quo posses viso dicere, Numen inest”. (V’era una selva ai piedi dell’Aventino ombrosa per i lecci,/che al vederla puoi dire, qui abita un Nume.)

[67] Ovidio, Artis amatoriae, lib. III: “Vatibus aoniis faciles estote, puellae;/Numen inest illis; Pieridesque favent”. (O fanciulle, sarete facili agli aonii poeti;/in loro abita un Nume; e le muse li favoriscono).

J. L. Borges: Fervore di Buenos Aires (1923) (riflessioni su).ultima modifica: 2019-07-14T16:04:14+02:00da lettore2015
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