J. L. Borges: Utopia di un uomo che è stanco (riflessioni su)

Utopia di un uomo che è stanco (da Il libro di sabbia 1975)

Racconto della vecchiaia “onesto e malinconico” (così lo definisce Borges stesso nell’epilogo al Libro di sabbia, la raccolta da cui è tratto).
Onesto per il suo carattere confessorio; malinconico, perché la riflessione autocritica ivi condotta interviene in età ormai avanzata, che non consente più emendamenti.
Solo i colli, afferma Borges, sono tra loro diversi; la pianura, invece, è una ed è sempre la stessa.
E precisa: “io percorrevo una strada della pianura”.
Le affermazioni sono un’allegoria.
I colli, le personalità eccelse, per la loro statura creativa lasciano un’impronta distinguibile.
La pianura simboleggia, invece, l’eguaglianza, il luogo dal quale nessuno emerge mettendosi in rilievo: essa evoca, dunque, l’impersonalità, l’anonimato.
Borges, nel momento di stanchezza morale, ritiene, con severa autocritica, che la sua produzione artistica non si distingua per originalità di contenuti.
In una conversazione con Richard Burgin (Palazzi, 1971, pagg. 77 e segg.), commentando i suoi racconti, egli aveva affermato che essi non perseguono finalità morali, né filosofiche, né, comunque, d’insegnamento. Essi – aveva dichiarato – non sono come quelli di Esopo, ma vanno letti ed apprezzati per la loro capacità di suggestionare ed avvincere il lettore.
Nelle sue opere, egli ha ripensato temi di poeti, filosofi e narratori che lo hanno preceduto o suoi contemporanei, che ama, avendoli letti e riletti, ed ha creato racconti che, per la meravigliosa sua fantasia, per l’impareggiabile abilità di ricombinazione tematica e per la forma espositiva, sorvegliata ed apparentemente lineare, ma, in verità, sempre polivalente e labirintica, riescono a dare i brividi al lettore.
Egli ha, dunque, elaborato una poetica ricca di sottili vibrazioni estetiche, ma la sua prosa, curatissima, suggestiva ed avvincente avrebbe, tuttavia, inghiottito i contenuti.
A consuntivo della sua vita, Borges coltiva il malinconico dubbio di non aver detto nulla di più originale di quanto non fosse già nelle fonti dalle quali ha attinto (vedremo, tuttavia, che questo dubbio durerà poco: “Queste visite … non durano molto,… al più tardi sarai in casa tua domani”).
Siffatta letteratura, nella quale i contenuti sono recessivi rispetto all’elemento formale, basata sulla rielaborazione di temi di altri o anche di sé stesso, può indulgere alla spettacolarizzazione (Esse est percipi) o sfociare nel déjà vu (timore dell’inutilità, della banalità, espresso nel racconto).
Lo scrittore avverte, forse, il peso della responsabilità di avere abdicato al dovere dell’intellettuale di costituirsi quale guida ideale, assumendosi la responsabilità di tale impegno.
Anch’egli, che non è più “nel mezzo del cammino di sua vita”, si ritrova per una “selva oscura” e ciò lo spinge ad intraprendere un viaggio alla ricerca di un mondo ideale (ed utopico), la cui organizzazione renda libero l’uomo da tali angosce (“Non ti sorprende la mia improvvisa apparizione?”).
Lo immagina come un mondo molto futuro nel quale incontra il suo doppio (l’utopia- chiarisce il titolo- è dell’uomo stanco, dunque di Borges-narratore, per cui l’uomo alto e grigio, che nel racconto la enuncia, è il suo doppio).
Questi gli illustra i caratteri di quel mondo, ipoteticamente più evoluto (l’altezza dell’uomo e degli altri personaggi che lo popolano è ancora una volta allusiva alla superiorità), nel quale risulterebbero ormai risolti i conflitti del mondo attuale, da quello sociale (povertà e ricchezza), alle guerre (non ci sono più confini, né fili spinati, né governi, c’è un’unica lingua mondiale, il latino), a quelli interpersonali (non ci sono personalismi, addirittura, non ci sono nomi).
Infine, non essendoci più cronologia, né storia, né memoria, non può verificarsi alcun prestito, né derivazione tematica, e la creazione artistica e letteraria è libera ed incondizionata, libera anche dalla preoccupazione del lascito.
Nel futuro ed utopico mondo, ciascun uomo è il proprio Bernard Shaw, il proprio Gesù Cristo e il proprio Archimede, possiede cioè il massimo di libertà, di autonomia e di padronanza della propria vita; infatti, una volta raggiunta la maturità, a circa cento anni di età (la vita è molto lunga ed il tempo scorre lentissimo), impara a conoscersi e a saper convivere con la solitudine e non ha bisogno di niente cui non sappia provvedere da sé, nemmeno dell’amore e dell’amicizia; in altri termini, interrompe ogni forma di relazione (separatezza). Nessuna cosa lo interessa, né del passato, né del futuro, all’infuori dei racconti fantastici. La lettura è ponderata e reiterata, non c’è stampa e, dunque, non ci sono testi inutili, né diffusione di banalità. Niente lo turba (atarassia) ed è talmente libero e padrone del suo destino, che può anche scegliere di suicidarsi.
La scuola insegna il dubbio e l’oblio.
L’unica memoria è quella delle citazioni, cioè dei fatti e soprattutto dei testi, che hanno commosso e che vengono ricordati indipendentemente dalla volontà del ricordo (Borges, Altre conversazioni con Osvaldo Ferrari, Bompiani, 1989, pag. 92).
Il mondo futuro dell’imperante utopia consolatoria è, però, di uno squallore infinito.
L’uomo che lo abita è grigio, tutto è uguale e monotono e l’unica forma di libertà, che è anche una liberazione, è la normalità del suicidio.
In esso, il solo edificio pubblico e monumentale è il Crematorio.

A questo punto, Borges compie un improvviso revirement, icasticamente annunciato dalla breve proposizione: “Fu allora che si udirono i colpi”.
Il ritmo narrativo accelera e, per converso, l’utopia si dissolve.
L’uomo grigio, parlando con la donna, anch’essa alta, le chiede del figlio Nils, un figlio che ha il nome ed è, dunque, distinguibile. La donna stabilisce, inoltre, un raffronto tra l’arte della pittura del figlio e quella del padre, così revocando in dubbio il principio di separatezza, di autonomia e d’incomunicabilità affermato dall’utopia.
Infine, ed è questo il paradosso magistrale che suggella la fallacia dell’utopia, il Crematorio, opera simbolica della padronanza che l’uomo ha della vita e della morte, strumento dell’anelito di libertà, era stato inventato da un personaggio dal nome di Adolfo Hitler, cioè da un criminale, che l’utopia fa apparire come filantropo.
Come ne “L’altro”, Borges fornisce anche qui la prova del suo viaggio: è un quadro che viene dal futuro, ma si trova nel suo studio di via México.
Racconto toccante, con il quale, all’esito di una severa riflessione autocritica, lo scrittore conclude per il riscatto della letteratura (ed anche della sua opera), che non può prescindere dalla memoria, dalle citazioni e dai prestiti, in quanto “il linguaggio è una tradizione, tutta la letteratura del passato è tradizione, e noi forse non possiamo tentare che qualche modifica, modesta variazione su ciò che è stato scritto: dobbiamo raccontare la stessa storia ma in modo leggermente diverso, mettendo magari l’accento su particolari diversi, e nient’altro, ma non dobbiamo dolercene” (Borges, op. cit., 1989, pagg. 165-166).
Valerio Ferlito

J. L. Borges: Utopia di un uomo che è stanco (riflessioni su)ultima modifica: 2015-04-29T16:31:27+02:00da lettore2015
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