J. L. Borges: Tre versioni di Giuda (riflessioni su)

J. L. Borges: Tre versioni di Giuda (da Finzioni, 1944)

di  Valerio Ferlito

  1. Introduzione

Il racconto è tratto dalla raccolta “Finzioni” (1944), in particolare dalla parte intitolata “Artifici”.
Nella premessa alla raccolta, Borges lo definisce “una fantasia cristologica”.
Il rapporto tra Borges e la religione, tra Borges e Dio, è notoriamente problematico: “I cattolici (leggasi i cattolici argentini) credono a un mondo ultraterreno, ma ho notato che non se ne interessano. A me succede il contrario; mi interessa e non ci credo”[1].
Burgin: “Pensa che i filosofi abbiano perso un mucchio di tempo argomentando sull’esistenza di Dio, o ne trae ancora interesse o stimolo?” Borges: “Mi procura un grande piacere, il piacere che mi danno le avventure poliziesche o quelle di fantascienza. Ma penso che nessuno possa prendere troppo sul serio queste speculazioni filosofiche. Naturalmente, si può credere in Dio, oserei dire che Dio esiste, ma non credo in Lui grazie a queste argomentazioni. Direi piuttosto che credo in Dio nonostante la teologia. I teologi seguono le regole del gioco; si accettano alcune premesse e se ne debbono accettare le conclusioni”[2].

Tutta l’opera di Borges, sia in prosa che in versi, è attraversata dal dilemma della Fede.
A fronte delle dichiarazioni di agnosticismo, i contenuti delle sue opere, soprattutto di quelle poetiche, lasciano trasparire una ricerca di Dio, costante, appassionata e commossa[3].
“Tre versioni di Giuda” è un racconto della maturità (Borges ha 45 anni) nel quale l’autore, more solito, si cela due volte.

La prima, attribuendo i suoi ragionamenti ad un immaginario teologo svedese, Nils Runeberg, al quale Dio assegnò di vivere nella città universitaria di Lund; quindi, percorrendo, con la consueta maestria, il crinale sdrucciolevole tra verità e invenzione.
Egli, oltre all’esplicita definizione di “fantasia cristologica”, ci consegna, nel racconto, altri elementi utili ad illustrare il suo gioco con le tesi teologiche di Nils Runeberg.
“In un cenacolo di Parigi o anche di Buenos Aires, un letterato potrebbe benissimo riscoprire le tesi di Runeberg; queste tesi, così proposte in un cenacolo, sarebbero leggeri ed inutili esercizi della negligenza e della bestemmia”.
Ed, ancora, “nel II secolo della nostra fede, quando Basilide annunciava che il cosmo è una temeraria o malvagia improvvisazione di angeli imperfetti, Nils Runeberg avrebbe diretto, con singolare passione intellettuale, una delle conventicole gnostiche. Dante gli avrebbe destinato, probabilmente, un sepolcro di fuoco; il suo nome arricchirebbe il catalogo degli eresiarchi minori.”

A suggello di tali non encomiastici giudizi, Borges ci offre un ulteriore dettaglio, racchiuso nel nome del teologo Nils Runeberg.
Letteralmente Runeberg significa, traducendo dallo svedese, “montagna di Rune”.
Le Rune, com’è noto, sono la scrittura utilizzata dalle antiche popolazioni scandinave e germaniche (dal II secolo dopo Cristo e per tutto l’alto medioevo), dal significato misterioso e segreto, accessibile solo a pochi iniziati, la cui signoria era attribuita al dio Odino, che ne aveva appreso i contenuti misterici.
Borges, in tal modo, ci suggerisce due criteri ermeneutici: la forte affinità con lo gnosticismo, ed il collegamento a saperi mitologici e pagani.

  1. La prima versione: “il rispecchiamento

Le molteplici e, come vedremo, incoerenti tesi teologiche che Nils Runeberg sviluppa nei suoi libri e di cui Borges riferisce le conclusioni nel racconto, costituiranno per il teologo svedese motivo di “orgoglio, di giubilo e di terrore”.
V’è, forse, un sovraccarico di personalismo nell’atteggiamento di Nils Runeberg, che si dedica, “con singolare passione intellettuale”, agli studi e all’elaborazione delle sue innovative teorie teologiche, probabilmente accompagnando alla ricerca della verità, una vanità personale.
Runeberg nel 1904 – racconta Borges – pubblicò la prima edizione di Kristus och Judas.
L’opera porta un’epigrafe di Thomas De Quincey (1785-1859): “Non una sola cosa, tutte le cose che la tradizione attribuisce a Giuda Iscariota sono false” (1857).
De Quincey aveva suggerito un movente politico: Giuda, componente della frangia estremista dei Farisei, gli Zeloti, avrebbe tradito e consegnato Gesù per forzarlo a dichiarare la sua divinità, così da accendere una vasta ribellione contro il giogo di Roma.
Runeberg, invece, suggerisce una motivazione d’ordine metafisico, così articolata:
l’atto di Giuda era superfluo, perché Gesù, essendo un personaggio assai noto, che aveva compiuto miracoli dinanzi a migliaia di persone, non aveva bisogno d’essere riconosciuto.

Ciò appunto, tuttavia, avvenne. Onde, non potendosi ammettere un errore nella Scrittura, il tradimento di Giuda non fu casuale, ma era stato prestabilito ed entrava nell’economia della Redenzione.
Il Verbo, incarnandosi, “passò dall’ubiquità allo spazio, dall’eternità alla storia, dalla felicità senza limiti alla mutazione e alla morte; per rispondere a tanto sacrificio, era necessario che un uomo, in rappresentanza di tutti gli uomini, facesse un sacrificio condegno. Giuda Iscariota fu quest’uomo. Giuda, unico fra gli apostoli, intuì la segreta divinità e il terribile proposito di Gesù”. Da discepolo del Verbo, s’abbassò alla condizione di delatore e d’ospite dell’Inferno. Come l’ordine inferiore è specchio del superiore, come le macchie della pelle sono una carta delle costellazioni incorruttibili, così Giuda rispecchiava Gesù. Di qui i trenta denari e il bacio; di qui la morte volontaria, per meritare ancor più la riprovazione.
(L’idea che segni del mondo sensibile rivelino il messaggio segreto di Dio è ricorrente in Borges; nel racconto “La scrittura del Dio”[4], egli affida all’ordine e alla configurazione delle macchie della pelle del giaguaro il mistero di quel messaggio).

In questo modo Nils Runeberg spiegò l’enigma di Giuda.
Egli  – così lo presenta Borges – era un teologo membro dell’Unione Evangelica Nazionale ed era profondamente religioso.
Non poteva dunque ignorare che i Vangeli attribuiscono all’atto di Giuda una funzione diversa da quella dell’identificazione di Gesù.
Infatti, la preoccupazione dei sacerdoti, essendo Gesù molto amato dal popolo ed essendo prossima la festa della Pasqua, consisteva nel trovare il modo opportuno di arrestarlo, in un luogo lontano dalla vista del popolo, perché non nascesse tumulto[5].
Anche Giuda, dal canto suo, cercava il modo e l’occasione opportuna per consegnarlo all’insaputa della folla[6].
A questo scopo fu pattuito un prezzo di trenta denari.
Dunque, Giuda doveva indicare agli emissari dei sacerdoti il luogo[7]  e l’ora più opportuni per trarre in arresto Gesù.
Non v’era questione di identificazione della persona di Gesù.
Interpretare diversamente il Vangelo costituisce errore, che, commesso da Runeberg, teologo, fa sorgere il dubbio della fraudolenza.
La premessa del ragionamento di Runeberg è, dunque, fallace; conseguentemente, lo sono anche le conclusioni.
Il tradimento di Giuda nei Vangeli inizia quando egli si reca spontaneamente dai sacerdoti ad offrire la consegna di Gesù, prima dell’”Ultima Cena” ed in quell’occasione Satana entra in lui[8]; l’azione si conclude con il suicidio di Giuda; anche questo, atto libero, che non consente al suo pentimento di perfezionarsi, rivelando in modo definitivo ed irreversibile la sua mancanza di fede in Gesù e nel Suo perdono.
Entro tali due eloquenti segni, il tradimento di Giuda entra nell’economia della Redenzione: Dio sa convertire in bene anche le azioni malvagie.
Runeberg così prosegue: l’incarnazione fu sommo sacrificio di Dio, era necessario che un uomo, in rappresentanza di tutti gli uomini, facesse un sacrificio condegno.
Questa singolare deduzione mescola il mistero dell’incarnazione, che è centrale nella fede cristiana, con concezioni teologiche gnostiche, derivanti dal vangelo di Giuda (II secolo d.C.), secondo le quali Giuda “avrà molto da soffrire”, sarà maledetto dalle altre generazioni e sarà lapidato, ma, in quanto iniziato, dunque a conoscenza del mistero di Dio rivelatogli direttamente da Gesù, liberatosi dalla prigione del corpo, potrà raggiungere il pléroma, la pienezza del Dio buono.
Borges sa che lo gnosticismo non ammette l’incarnazione di Dio; ce ne dà conto nel racconto “Una rivendicazione del falso Basilide”[9], dove dice: “Questi (il redentore) dovette assumere un corpo illusorio, poiché la carne degrada. Il suo impassibile fantasma fu appeso pubblicamente alla croce, ma il Cristo essenziale attraversò i cieli sovrapposti e si reintegrò al pléroma.”
La parola “fantasma” assume qui un’accezione tipica, in quanto gli gnostici negavano la realtà carnale del corpo umano di Cristo, perché la carne, la materia, identificano il male e Gesù era sceso sulla terra per liberare l’uomo dalla materia, per cui non poteva andare soggetto alle infermità ed impurità della materia stessa.
In questa dottrina, il Dio buono (l’altro, cattivo, è il Dio della Scrittura, cioè il Creatore, chiamato demiurgo) per la redenzione, invia sulla terra Gesù, che assume un corpo non carnale, detto φάντασμα (fantasma), che ha l’imprecisata natura del corpo degli angeli.
Il mescolamento di elementi di dottrina cristiana (incarnazione) con altri gnostici (Giuda che si sacrifica in rappresentanza di tutti gli uomini) crea un miscuglio che, come vedremo, i teologi colleghi di Runeberg gli rimprovereranno.
Peraltro, la dottrina gnostica non prevede la possibilità di salvezza per tutti gli uomini, ma solo per una categoria di essi, ontologicamente distinta, gli pneumatici o spirituali, élite gnostica contrassegnata da una più marcata traccia della scintilla divina decaduta.
La rimanente parte dell’umanità è formata dagli psichici e dagli ìlici; i primi potranno accedere alla visione di Dio nel pléroma a costo di un grande sforzo, mentre gli altri non potranno mai accedervi.
Dunque, Giuda, secondo la dottrina gnostica, essendo uno gnostico perfetto, perché reso edotto da Gesù dei misteri salvifici, non rappresenta tutti gli uomini, ma solo gli iniziati.

Runeberg sostiene poi che Giuda fosse l’unico apostolo ad avere intuito la segreta divinità e il terribile proposito di Gesù. L’affermazione è erronea.

Infatti, Pietro conosceva la natura di Gesù, in quanto rivelatagli direttamente da Dio Padre[10].
E’ come se Borges si stesse prendendo gioco del teologo svedese, attribuendogli tesi bizzarre, a supporto delle quali introduce, infine, la giustificazione del “rispecchiamento” (sappiamo quanto gli fosse caro il tema degli specchi).
Prendendo spunto dalla massima ermetica “così in alto, così in basso”, Runeberg dice: “Giuda rispecchiava in qualche modo Gesù”, per cui i trenta denari ed il bacio costituirebbero, nell’immagine terrena dello specchio, il prezzo della Redenzione; “Questi buttò via i trenta pezzi che erano il prezzo della salvezza delle anime e immediatamente si impiccò”[11]; così pure, la sua morte volontaria fu per meritare ancor più la riprovazione umana, accrescendo il valore del suo sacrificio (lo gnostico vuole essere sacrificato, ripudiato dal mondo che non riconosce, per raggiungere la visione del dio buono, nel pléroma).
“I teologi di tutte le confessioni lo sconfessarono”.
Aveva negletto, pur nominandola, l’unione ipostatica, cioè l’incarnazione, in presenza della quale non occorreva che alcun altro uomo compisse “sacrifici condegni”. Aveva negato l’umanità di Cristo; aveva contraddetto il Vangelo che recita: “E Satana entrò in Giuda, detto Iscariote, uno dei dodici”[12].
Runeberg fu scosso dagli anatemi, a tal punto da modificare la propria dottrina e da abbandonare il terreno teologico.
Si conclude così la prima versione di Giuda, che può essere denominata del “rispecchiamento”.

  1. La seconda versione: ”l’asceta”

Runeberg riscrisse il libro con il nuovo titolo di Den Hemlige Frälsaren, proponendo adesso, dice Borges, “oblique ragioni di ordine morale”.
Ammise che Gesù non aveva bisogno di un uomo per redimere tutti gli uomini.
Poi argomentò: Giuda era stato scelto da Gesù come suo apostolo, con le medesime prerogative di tutti gli altri apostoli.
Un uomo scelto dal Signore merita la più benevola interpretazione dei suoi atti.
Non può dunque ritenersi che il tradimento fosse motivato dalla cupidigia.
Anzi, Giuda lo compì per eccesso di ascetismo. L’asceta mortifica la carne, egli mortificò lo spirito.
Rinunciò all’onore e al regno dei cieli per gigantesca umiltà; si stimò indegno di essere buono; cercò l’Inferno, perché la felicità del Signore gli bastava. La felicità, ritenne, è un attributo divino, che non pertiene agli uomini.
Le ragioni “morali” addotte da Runeberg, in verità, sottendono ancora importanti presupposti teologici, e sono veramente “oblique”.
Borges, in questa versione dell’asceta, rinvia nuovamente alle dottrine gnostiche (setta dei Cainiti), che operavano il ribaltamento delle figure bibliche e del Nuovo Testamento negative in positive, per farne eroi in una sorta di retorica del male.
La dottrina gnostica della salvezza implica il disprezzo del mondo materiale, che è la creazione imperfetta di un dio ignorante e malvagio (demiurgo), e considera la salvezza come rifiuto e negazione della materia, della carne e del corpo, in vista del ritorno nella dimensione dello spirito.
“Nel sistema esaminato, queste derivazioni di Dio decrescono e s’indeboliscono a misura che si allontanano, fino ad affondare negli abominevoli poteri che abbozzarono con avverso materiale gli uomini”[13].
Risulta, dunque, davvero singolare l’ascetismo spirituale di Giuda, cioè la mortificazione dello spirito.
Già sul piano del significato letterale, l’espressione “ascetismo spirituale” è un ossimoro, considerato che l’ascetismo consiste essenzialmente nella svalutazione della sfera del corporeo contrapposta alla sfera dello spirituale e non viceversa.
Poi, alla stregua della dottrina gnostica, come evidenziato, il male risiede nella materia e non nello spirito, per cui la mortificazione dello spirito appare come un non senso.
Ma Borges insinua, sornione, ulteriori dubbi e, dopo aver riferito le parole di Runeberg: “Giuda scelse quelle colpe cui non visita alcuna virtù: l’abuso di fiducia e la delazione”, in una nota al testo ci informa che Euclydes de Cunha, in un libro ignorato da Runeberg, ricorda che per l’eresiarca di Canudos, Antonio Conselheiro, la virtù “era una quasi empietà”.
E va oltre: lo gnosticismo, annettendo valore prevalente alla gnosi (la conoscenza misterica esoterica), considera irrilevante la condotta degli uomini ai fini della loro salvazione (aspetto morale).

Infatti, l’iniziato si salva anche se commette azioni malvagie. Sempre nella stessa nota, Borges ci fa sapere che Runeberg pubblicò un accurato poema descrittivo, intitolato “l’acqua segreta” (simboleggiante la gnosi), nel quale suggerisce che il perdurare di quest’acqua silenziosa corregge la nostra inutile violenza, e in qualche modo la permette e l’assolve.
Borges, in tal modo, conferma Runeberg come teologo gnostico, concludendo così la seconda versione di Giuda, quella dell’asceta: “Molti hanno scoperto, post factum, che Den hemlige Frälsaren è una semplice perversione o esasperazione di Kristus och Judas”.

  1. La terza versione: ”l’infamia

Runeberg rivide nuovamente le proprie tesi e, preso da timore, attese due anni prima di pubblicarle.
Questi i nuovi argomenti: Dio s’abbassò alla condizione di uomo per la redenzione del genere umano; il suo sacrificio fu perfetto, privo di omissioni. “Affermare che fu un uomo e che fu incapace di peccato, implica una contraddizione: gli attributi di impeccabīlitas e di humanitas non sono compatibili”. “Dio interamente si fece uomo, ma uomo fino all’infamia, uomo fino alla dannazione e all’abisso”. “Avrebbe potuto scegliere uno qualunque dei destini che tramano la perplessa rete della storia;… scelse un destino infimo: fu Giuda.”
Lo stesso Borges definisce “mostruosa” questa conclusione.
Runeberg va qui oltre lo gnosticismo, che non era giunto a tanta perversione (vedremo infra che vi sono, invece, influssi della Cabala luriana e della sua degenerazione eretica, il Sabbatianesimo).
Ci sono almeno tre aspetti che rivelano la fallacia del ragionamento logico-deduttivo di Runeberg.
Il primo: se Dio s’incarna in Giuda, quale ruolo assume la figura di Gesù Cristo?

Perché Runeberg afferma che “limitare ciò che soffrì all’agonia di un pomeriggio sulla croce, è bestemmia”, se certamente non fu l’asserito Dio-Giuda ad essere crocifisso, ma Gesù, che non sarebbe stato Dio?
Il secondo: la figura di Cristo costituisce “exemplum”. “Chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre”[14]. “Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi”[15].
Obiettivamente, ci sarebbero forti difficoltà a considerare “esemplare” la figura di Giuda, anche quella magnificata che traspare dal vangelo gnostico, in quanto lo gnostico non vuole essere esemplare, essendo disinteressato alle vicende di un mondo materiale che considera prigione.
Il terzo: Runeberg, per giustificare la tesi dell’indifferenza dell’incarnazione di Dio in qualunque uomo, è costretto a premettere l’ipotesi che non è compatibile l’humanitas del Redentore con la sua incapacità di peccare (impeccabīlitas).

La premessa, tuttavia, si fonda su un errore teologico.
Intanto, i Vangeli danno atto dell’ “impeccanza” di Gesù, cioè della circostanza di fatto che Egli non peccò e che fu immune dal peccato originale[16].
Quanto all’ “impeccabilità”, cioè alla Sua mancata attitudine al peccato, Runeberg nuovamente non tiene conto dell’unione ipostatica, come gli era già stato rimproverato dopo la prima versione, da lui ritrattata.
Gesù è uomo in tutto, ma non può peccare, perché peccare significa porsi contro Dio ed Egli è Dio.

Questa terza versione, che potrebbe definirsi dell’”infamia”, oltre ad essere “mostruosa” nelle sue conclusioni, come la definisce lo stesso Borges, appare, come s’è visto, anche poco supportata in termini logico-deduttivi.
Il libro non riscosse successo. Runeberg intuì che Dio ordinava tanta indifferenza. Dio non voleva che si diffondesse sulla terra il Suo terribile segreto. Runeberg aveva svelato l’inconoscibile e “orrendo” nome di Dio e si attendeva un castigo infinito. Morì della rottura di un aneurisma (come tanti altri personaggi borgesiani) nel 1912.
“Gli eresiologi, forse, ne faranno cenno: aggiunse al concetto di Figlio, che sembrava esaurito, le complessità del male e della sventura.”

  1. Significato del racconto

Il racconto presenta diversi livelli di significato.
Il primo, il più immediato, è quello suggerito dall’affermazione di Borges nell’intervista a Burgin.
La teologia e la filosofia non possono, in quanto elaborazioni della limitata mente umana, penetrare i misteri di Dio, dell’Incarnazione, della Redenzione, della Trinità, misteri che costituiscono dogmi nella teologia cristiana, la cui pretesa di comprensione mediante il solo ragionamento, senza l’ausilio della Grazia, è atto di superbia (Runeberg-Satana-Giuda).
Borges, prendendosi gioco di Runeberg, evidenzia l’incongruenza del metodo di ricerca speculativa con la materia trattata e la conseguente, inevitabile arbitrarietà dei suoi risultati.
Il tema del relativismo teologico è ricorrente in Borges, verrà ripreso nel racconto “I Teologi” della raccolta “L’Aleph” (1949), nel quale la medesima tesi sostenuta da un teologo contro un’eresia viene in una prima occasione osannata; poi, in altra e successiva circostanza, bollata di eresia: gli costerà la vita.
Borges era molto influenzato dal Libro di Giobbe, che prediligeva.
Ivi, il Signore rimprovera a Giobbe, che non sapeva farsi una ragione della sofferenza che stava ingiustamente patendo, la presunzione di voler comprendere i principi divini che reggono il mondo e che giustificano la sofferenza. Dio è imperscrutabile e misterioso.
Runeberg, come è stato evidenziato, insiste molto nella ricerca di un’improbabile verità.
Si possono individuare almeno due motivi della sua condotta tanto ostinata.
Da un lato, come s’è accennato, la vanità personale, il desiderio di pubblicare il libro ad ogni costo.
Borges in “Utopia di un uomo che è stanco”[17], critica l’inflazione di libri stampati, facendo affermare all’ “uomo del futuro” (il suo doppio): “Nessuno può leggere duemila libri. Nei quattro secoli che ho vissuto finora non ne ho letto più di mezza dozzina. Inoltre la cosa più importante non è leggere ma rileggere. La stampa, ora abolita, è stata uno dei peggiori mali dell’Uomo, giacché la sua tendenza è stata quella di moltiplicare fino alla vertigine testi inutili.”
Dall’altro, Borges riconosce che l’uomo è spinto da un insopprimibile anelito all’infinito.
“L’impossibilità di penetrare il disegno divino dell’universo non può, tuttavia, dissuaderci dal tracciare disegni umani, anche se li sappiamo provvisori”[18].
Ciò potrebbe giustificare l’insistenza di Runeberg nella ricerca ad oltranza di una verità razionalmente impossibile, ma istintivamente anelata. In tal caso, Runeberg sarebbe in buona fede.
Da altra prospettiva, Runeberg è un letterato. E per Borges la letteratura è solo fantastica: “Io direi che tutta la letteratura è essenzialmente fantastica, che l’idea di una letteratura realistica è falsa, perché il lettore sa che quello che gli viene raccontato è finzione”[19].
Anche la metafisica è un ramo della letteratura fantastica. “I metafisici di Tlön non cercano la verità, e neppure la verosimiglianza, ma la sorpresa. Giudicano la metafisica un ramo della letteratura fantastica”[20].
Borges dal Libro di Giobbe ha dedotto che “l’insondabile (Dio e l’Universo) può essere descritto attraverso l’insondabile (la letteratura fantastica)”[21].
Per questa ragione, l’atto creativo è libero e la curiōsitas spinge e legittima il poeta ad interrogarsi senza posa sui più profondi significati dell’esistenza, della realtà e dell’infinito, ricercando, al di là della tradizione, le verità anche più eversive. “Il concetto di testo definitivo appartiene unicamente alla religione o alla stanchezza”[22].
A conclusione di questo primo livello di significato, emerge in modo plausibile l’atteggiamento di distacco ironico di Borges dal “teologo” Runeberg ed una qualche giustificazione del “letterato”.
Ma, oltre alla critica al metodo di ricerca speculativo, questo racconto ci fa percepire anche qualche tenue elemento, forse inconfessato, che depone a sostegno della Fede di Borges in Dio.
Nella citata dichiarazione a Burgin, Borges aveva affermato “direi piuttosto che credo in Dio nonostante la teologia.”
In apertura del racconto, Borges fa riferimento al “secolo II della nostra fede”. Ed, ancora, riferendosi a Runeberg, afferma: “Dio gli assegnò il secolo XX e la città universitaria di Lund.” (Onnipotenza di Dio).

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Nella parte conclusiva del racconto, Borges tocca due temi di grande importanza: Il Nome di Dio e il problema del male.
Sottostante a questi temi, v’è evidente l’influenza della mistica ebraica e della cabala.
Com’è noto, Borges fu cultore appassionato della Bibbia, che sin dall’infanzia la nonna paterna, Fanny Haslam, gli leggeva.
“C’è soprattutto Israele, che ci ha dato la Bibbia, il libro più importante del mondo, al quale segue subito dopo La Divina Commedia”[23].

Nel 1969, durante un viaggio a Gerusalemme, Borges incontrò Gershom Scholem, il teologo berlinese, studioso di ebraismo, di cui aveva letto numerose opere.
“Nel 1969, quando ero in Israele, parlai della leggenda boema del Golem con Gershom Scholem, il più grande studioso di misticismo ebraico, il cui nome avevo usato due volte come l’unica rima possibile in una mia poesia sul Golem”[24].
Nella tradizione ebraica, il primato della parola come ente sacro assume peculiare rilevanza.
Il pensiero della Cabala s’è alimentato per secoli della meditazione sul Nome, anzi sui Nomi di Dio, sulla loro segretezza ed impronunciabilità e sulle infinite possibilità combinatorie delle lettere che li compongono.
L’ermeneutica cabalistica, soprattutto quella estatica, e, sia pure in misura minore, anche quella teosofica, prevede, ai fini della comprensione del significato occulto della Scrittura, l’atomizzazione o monadizzazione dei testi biblici, cioè la suddivisione delle parole nelle singole lettere che le compongono, in entità discrete; infatti, il senso proviene dall’Intelletto Attivo (Dio) e può essere acquisito dalla facoltà intellettiva del mistico soltanto a seguito di un’alterazione del suo stato di coscienza che lo avvicini a quello di colui che aveva ricevuto l’ispirazione o la rivelazione all’atto della redazione del Testo sacro.
A questo speciale stato profetico, il mistico perviene mediante rituali, alcuni consistenti nella recitazione delle singole lettere con intonazione melodica.
Il mistico deve distruggere la struttura del linguaggio per purificare la sua mente dalle forme che vi sono iscritte, creando così le condizioni per l’inabitazione di Dio.
L’attingimento del sensus propheticus del testo biblico monadizzato equivale alla conoscenza del Nome o dei Nomi di Dio, che, a sua volta, in un processo circolare, predispone alla profezia.
I significati della Scrittura sono tanto più incomprensibili, quanto più sono alti, cioè vicini a quelli rivelati.
Il Nome di Dio si colloca, dunque, all’apice dell’incomprensibilità, per cui non può essere conosciuto dalla mente dell’uomo e non può essere pronunciato dal profeta mistico che sia giunto a comprenderlo.
I concetti della mistica ebraica hanno costituito per Borges feconda fonte d’ispirazione di un’importante quantità di temi e di motivi ricorrenti, avendo trovato in lui una fertile attitudine ricettiva.
I temi del Nome, delle lettere dell’alfabeto come opera diretta di Dio, della Creazione attraverso la parola di Dio, della specularità tra macrocosmo e microcosmo, della circolarità, costituiscono, com’è noto, simboli principali nell’opera dello scrittore.
“Di qui la conclusione che il mondo fu creato dalla parola luce o dall’intonazione con cui Dio pronunciò la parola luce. Se avesse detto un’altra parola e con un’altra intonazione, il risultato non sarebbe stato luce, ma sarebbe stato diverso”[25].
Ed, ancora: “Ci sarà, di vocali e consonanti,/ un terribile Nome, che l’essenza/ di Dio compendî e che l’Onnipotenza/ serbi in lettere e sillabe precise./ Nel Giardino lo seppero le stelle/ e Adamo. Poi il peccato e la sua ruggine/ l’han cancellato (dice il cabalista)/ e le generazioni l’han perduto”[26].
“La radice del linguaggio è irrazionale e di carattere magico. Il danese che articolava il nome di Thor o il sassone che pronunciava quello di Thunor non sapevano se quelle parole significavano il dio del tuono o lo strepito che tien dietro al lampo. La poesia vuol tornare a quell’antica magia”[27].
In “Tre versioni di Giuda”, Borges fa espresso riferimento ai “Midrashim, che abominano gli empî che pronunciano il Segreto Nome di Dio.”
La “mostruosa” conclusione di Runeberg, al di là dei già rilevati profili di illogicità, risulta dunque condannevole da qualunque dottrina religiosa.
Essa si giustifica soltanto con la personale vanità della ricerca dell’eversivo, fine a sé stesso: è un atto di superbia del teologo.
Borges poeta e scrittore, avverte, abbiamo visto, l’esigenza del non compiuto, della ricerca perenne e conclude così il racconto: “aggiunse al concetto di Figlio, che sembrava esaurito, le complessità del male e della sventura.”
Traspare qui, oltre alla suggestione gnostica di cui s’è detto, l’influsso della Cabala luriana, in particolare della sua degenerazione eretica, il Sabbatianesimo, secondo cui la redenzione cosmica può conseguire all’abiezione (c. d. paradosso del santo peccatore).
Questo movimento messianico (Shabbetày Tzevi (1626-1676) si proclamò Messia nel 1665), ritiene che la redenzione presupponga ed includa elementi tragici, tali da far apparire incomprensibile agli altri fedeli il comportamento del redentore.
Il Messia per compiere la missione redentrice è costretto ad agire in modo che le sue stesse azioni meritino condanna (“azioni paradossali”, Ma’asìm zarìm).
Egli deve discendere nel regno delle tenebre e dell’impurità per costringere i gusci del male, le Kelipoth, a spaccarsi dall’interno per liberare le scintille di luce in esse intrappolate.
Un esempio, questo, che, tradotto in norme di comportamento etico per il credente, insegna che dobbiamo tutti scendere nell’abisso del male, per debellarlo dall’interno.
Il processo redentivo non ha luogo nella storia, ma nell’anima del credente, con il risultato che, per chi vive in questa realtà messianica invisibile, non c’è più un vincolo normativo esterno alla sua azione.
La dottrina sabbatiana era stata elaborata dal teologo del movimento, il fedele prediletto di Shabbetày Tzevi, Nathan di Gaza, per giustificare le azioni del sedicente Messia, il quale, a causa di una malattia psichica maniaco-depressiva, teneva comportamenti antinomici e incomprensibili ai più, commettendo ogni genere di peccato: pronunciava il Nome di Dio (sacrilegio per un Ebreo) ed, infine, per salvarsi la vita, sotto minaccia di morte, si convertì all’Islam.

L’apostasìa era considerata dagli Ebrei il peccato più grave.
Queste “azioni paradossali” sarebbero state la prova della continua lotta del Messìa contro il male in vista del trionfo e della redenzione.
Risalta la forte analogia tra il tradimento di Giuda e l’apostasìa di Shabbetày Tzevi, entrambi asseritamente redentori.

La ricerca delle fonti della “fantasia cristologica” di Borges e la sua stessa affermazione di chiusura “Gli eresiologi, forse, ne faranno cenno” offrono importanti e conducenti spunti di riflessione che consentono di concludere nel senso che con il racconto in commento egli abbia voluto criticare, nel suo modo sottilmente ironico, una metodologia di ricerca speculativa, di natura filosofico-teologica, la cui esecuzione offusca l’atto di fede nelle Scritture e in Dio, gesto che, invece, non mette in discussione.

 

[1] Borges:  “Discussione”, 1932, “note critiche a Leslie D. Weatherhead, After Death”.

[2] da “Conversazioni con Borges” di Richard Burgin, Palazzi, 1971, pag. 138.

[3] Borges: “Paradiso, XXXI, 108”, in L’artefice, (1960); “Giovanni, I, 14”, in L’altro, lo stesso (1964); “Altra poesia dei doni”, in L’altro, lo stesso (1964); “Giovanni, I, 14”, in Elogio dell’ombra (1969); “L’oriente”, in La rosa profonda, (1975); “Cristo in croce”, in I congiurati (1985).

[4] Nella raccolta “L’Aleph”, 1949.

[5] Matteo, XXVI, 3-5;  Marco, XIV, 1, 2;  Luca, XXII, 1, 2.

[6] Mt., XXVI, 14-16;  Mc., XIV, 10-11;  Lc., XXII, 3-6.

[7] Giovanni, XVIII, 2-3.

[8] Mt, XXVI, 14;  Mc, XIV, 10;  Lc, XXII, 3-4.

[9] Nella raccolta “Discussione”, 1931.

[10] Mt, XVI, 16-17;  Mc, VIII, 29;  Lc, IX, 20.

[11] Borges: “La Setta dei Trenta”, in “Il libro di sabbia” (1975).

[12] Lc, XXII, 3

[13] Borges:  “Una rivendicazione del falso Basilide”, op. cit.

[14] Gv, XIV, 12.

[15] Gv, XIII, 15.

[16] Lc, I, 35;  Gv, VIII, 29;  Gv, VIII, 46.

[17] Nella raccolta “Il libro di sabbia”, 1975.

[18] Borges: “L’idioma analitico di John Wilkins”, in “Altre inquisizioni” (1952).

[19] da “Altre conversazioni con Osvaldo Ferrari”, Bompiani, 1989, pag. 37.

[20] Borges:  “Tlön, Uqbar, Orbis Tertius”, in “Finzioni” (1941).

[21] Edna Aizenberg:  “Borges, el tejedor del Aleph y otros ensayos” (1977).

[22] Borges:  “Le versioni omeriche”, in “Discussione” (1932).

[23] da “Colloqui esclusivi con il grande scrittore argentino” di Costanzo Costantini, Sovera, Roma, 2003, pag. 60.

[24] Borges:  “Abbozzo di autobiografia”, Einaudi, 2007, pag. 137.

[25] Borges:  “La cabala”, in “Sette notti”, pag. 109, Feltrinelli, 1983.

[26] Borges:  “Il Golem” in “L’altro, lo stesso” (1964).

[27] Borges:  “Prologo” a “L’altro, lo stesso” (1964).

J. L. Borges: Tre versioni di Giuda (riflessioni su)ultima modifica: 2015-09-09T13:49:46+02:00da lettore2015
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