J. L. Borges: Tlön, Uqbar, Orbis Tertius (riflessioni su)

J. L. Borges: Tlön, Uqbar, Orbis Tertius (da “Il giardino dei sentieri che si biforcano”, 1941)

 

  1. Introduzione

 

Il racconto apre la raccolta “Il giardino dei sentieri che si biforcano” (1941), prima parte della raccolta “Finzioni” (1944).

Esso venne pubblicato sulla rivista “Sur” e nell’ ”Antologia della Letteratura Fantastica”, nel 1940.

Si compone di tre parti; la terza (poscritto) reca la data fittizia del 1947: è, dunque, postdatata rispetto al tempo della sua effettiva composizione (1940).

Alla vigilia di Natale del 1938, Borges subì un incidente al quale conseguì una setticemia.

Per un mese rimase incosciente, in bilico tra la vita e la morte. Perse anche l’uso della parola.

Da convalescente, temette per l’integrità delle sue facoltà mentali. “Pensai che se adesso avessi  cercato di scrivere una recensione e non ne fossi stato capace, voleva dire che dal punto di vista intellettuale ero finito, ma che se cercavo di fare qualcosa in cui prima non mi ero mai seriamente impegnato e non ci riuscivo, non sarebbe stato un guaio così grave …” (Abbozzo di autobiografia, Einaudi, 2007, pagg. 163-164).

Decise, dunque, di comporre in un nuovo genere letterario.

Nel 1939 pubblicò “Pierre Menard, autore del «Chisciotte»” e nel 1940 “Tlön, Uqbar, Orbis Tertius”, inaugurando, con essi, una serie di racconti fantastici, esteticamente preziosi, ma complessi e sorprendentemente ricchi di significati celati sotto la finzione.

“Tu, che mi leggi, sei sicuro d’intendere la mia lingua?” (“La Biblioteca di Babele”, in “Finzioni” 1944). Non sfuggiranno le rimembranze dantesche: “O voi ch’avete li ‘ntelletti sani,/mirate la dottrina che s’asconde/sotto ‘l velame de li versi strani. (Inf. IX, 61-63).

Nella prefazione alla prima edizione dell’ “Antologia della Letteratura fantastica” (1940), Bioy Casares, coautore ed amico di Borges, afferma: “Con L’accostamento ad Almotasim, con Pierre Menard, con Tlön, Uqbar, Orbis Tertius, Borges ha creato un nuovo genere letterario, che partecipa del saggio e del racconto; sono esercizi di incessante intelligenza e di immaginazione felice, carenti di languidezze, di ogni elemento umano, patetico o sentimentale, e destinati a lettori intellettuali, studiosi di filosofia, quasi specialisti di letteratura”.

In una dichiarazione resa ad Antonio Carrizo (“Borges el memorioso”, México 1983, pag. 222), Borges sintetizza così il significato del racconto: “E’ forse il mio racconto più ambizioso. …. E’ l’idea di un libro che trasforma tutta la realtà e trasforma il passato. Mi sono reso conto che ciò accade  sempre. Perché alla fine di tutto noi siamo opera della Bibbia e dei dialoghi di Platone”.

Ancora, nelle conversazioni con Burgin, egli afferma: “Uno dei più bei racconti che abbia mai scritto. … I più si indirizzano verso racconti realistici. Così un racconto come Tlön finisce col non rispondere alle aspettative. Questa è la ragione per la quale l’ho omesso dall’antologia personale” (Richard Burgin, Conversazioni con Borges, Palazzi, 1971, pag. 63).

Nella “Premessa” alla raccolta che lo contiene, Borges dichiara: “… io ho preferito scrivere, su libri immaginari, articoli brevi. Questi sono: Tlön, Uqbar, Orbis Tertius ….”.

Da un lato, dunque, egli configura un mondo fantastico, rappresentato in libri inesistenti e retto da dottrine filosofiche che avrebbero la pretesa d’interpretare in modo totale la realtà; dall’altro, utilizza la finzione per mostrare gli effetti che derivano dall’applicazione alla realtà concreta di quegli stessi pretenziosi principi filosofici.

La ragione dell’uomo, il suo pensiero, la sua filosofia, la sua metafisica, la teologia sono inadeguate a comprendere ed interpretare i misteri dell’universo, le sue leggi, la sua creazione.

Ne discende un’alternativa: o la fede nella verità rivelata, oppure uno scetticismo gnoseologico disperante e nichilista.

Nel racconto ricorrono e s’intrecciano tutti i temi principali che caratterizzano la letteratura fantastica di Borges: il tempo, il doppio, il labirinto, gli specchi, i libri, l’enciclopedia, il racconto nel racconto, il sogno e, insieme, traspaiono gl’interessi prevalenti dello scrittore per la storia, la filosofia, la metafisica, la teologia, lo gnosticismo, la mistica ebraica, il panteismo, l’idealismo.

Esso presenta diversi livelli di significato; nel saggio “Nuova confutazione del tempo” (in “Altre Inquisizioni”, 1946), Borges tratta la materia filosofica posta a fondamento di numerosi suoi racconti e di questo.

Ma egli è soprattutto un letterato, un poeta. La sua musa è fantastica: immagina la struttura del racconto come in un sogno. I significati filosofici e metafisici sempre presenti, anche nelle poesie, non imbrigliano la sua capacità d’intuizione fantastica, che gli consente di volare leggero su temi profondi e complessi.

I suoi racconti vanno riletti più volte per apprezzarne, intanto, l’espressività delle immagini, che rende “belle” le teorie, i miti, il concettuale, costituenti il testo sottostante.

 

  1. Analisi del racconto

Nota per il lettore: le riflessioni che seguono, per il loro carattere analitico, possono essere meglio fruite tenendo presente il testo del racconto, di cui seguono lo svolgimento.

PARTE   I

Nel 1935, in una villa di via Gaona a Ramos Mejía, Bioy Casares una sera aveva cenato dai Borges.

Dopo cena, stavano discutendo di un progetto di romanzo in prima persona, reso ermetico e dunque accessibile a pochissimi lettori, dall’omissione e dalla trasformazione di alcuni fatti da parte del narratore. In fondo al corridoio c’era uno specchio inquietante e mostruoso, che indusse in Bioy Casares il ricordo che nell’Anglo-American Cyclopedia, di cui egli possedeva un esemplare, nell’articolo su Uqbar, una regione dell’Irak o dell’Asia Minore, era riferito il seguente giudizio attribuito ad un eresiarca gnostico:  “gli specchi e la copula sono abominevoli, poiché moltiplicano il numero degli uomini”.

Sennonché, tutte le indagini subito attivate in molteplici direzioni non consentirono di rintracciare l’articolo su Uqbar.

Qualche giorno dopo, Bioy Casares portò a Borges, narratore in prima persona nel racconto, la sua copia del volume XLVI dell’Enciclopedia, che conteneva quell’articolo, sebbene esso non rientrasse nell’indicazione alfabetica recata dalla costola del volume stesso, che era Tor-Ups.

L’attenta lettura dell’articolo di 4 pagine (918-921) ne rivelò una fondamentale indeterminatezza.

In molte parti, era sostanzialmente autoreferenziale. Si ricavava che la letteratura di Uqbar era di genere fantastico e che le sue epopee e leggende non si riferivano mai alla realtà, ma alle due  regioni immaginarie di Mlejnas e di Tlön.

La bibliografia comprendeva quattro volumi introvabili; il terzo era di Silas Haslam, che è anche autore di una General History of Labyrinths ed il primo del teologo tedesco Johannes Valentinus Andreä, il quale, all’inizio del XVII secolo aveva descritto la comunità immaginaria dei Rosacroce,

che, successivamente, altri fondò sulla base di ciò che lui aveva immaginato.

*****

“Debbo la scoperta di Uqbar alla congiunzione di uno specchio e di un’enciclopedia”.

Con questa frase essenziale e bellissima Borges narratore apre il racconto. Ogni sua parola è una metafora; la frase racchiude, come risulterà evidente alla fine del racconto, che, come vedremo, è un labirinto, l’intero suo significato.

La  “scoperta”, è un disvelamento, una rivelazione, ed identifica il significato etimologico della parola “Apocalisse” (ἀποκάλυψις = rivelazione del destino ultimo).

Vedremo in seguito in che modo e di cosa la scoperta di Uqbar costituisca un’Apocalisse.

Il nome Uqbar, nella sua lezione Ucbar, che Borges indica testualmente nel racconto, invertito, diviene Baruc, nome di un’Apocalisse gnostica (Apocalisse siriaca di Baruc).

La “congiunzione” è una “copula”, fonte di eventi abominevoli, secondo il giudizio espresso dall’ eresiarca gnostico, che verrà citato poco dopo da Bioy Casares:  “gli specchi e la copula sono abominevoli, poiché moltiplicano il numero degli uomini”.

Già nel 1934, in “Storia universale dell’Infamia”, nel paragrafo intitolato “Gli abominevoli specchi” (in “Hakim di Merv”), Borges, facendo espresso riferimento alle dottrine gnostiche, aveva dichiarato: “La terra che abitiamo è un errore, una incompetente parodia. Gli specchi e la paternità sono abominevoli perché la moltiplicano e l’affermano”.

Gli specchi e l’enciclopedia sono entrambi temi ricorrenti, ricchi di simbologia nell’opera di Borges.

“Conobbi, bambino, codesto orrore di una duplicazione o moltiplicazione spettrale della realtà, ma davanti ai grandi specchi”. (“Gli specchi velati”, in “L’artefice”, 1960).

“Infiniti li vedo (gli specchi), elementari/esecutori d’un antico patto,/moltiplicare il mondo come l’atto/generativo, veglianti e fatali”. (“Gli specchi”, in “L’artefice”, 1960).

“Dio ha creato le notti che si colmano/di sogni e le figure dello specchio/affinché l’uomo senta che è riflesso/e vanità. Per questo ci spaventano”. (ibidem).

La metafora borgesiana dello specchio racchiude più significati.

In questo racconto, egli fa specifico riferimento a quello inferibile dalla dottrina gnostica.

Secondo questa, alla base della cosmogonia v’è un errore iniziale nel Pléroma (la pienezza, il mondo trascendente di Dio), che ha determinato una caduta verso il basso di un principio divino, un “riflesso” di Luce, che viene incorporato nella materia di Tenebra sottostante, per rimanervi intrappolato.

Con l’aiuto di questo “riflesso”, le potenze inferiori – gli arconti e il demiurgo (originariamente emanazioni di Dio, poi degenerate in demoni) – hanno prodotto il mondo e l’uomo; quest’ultimo ad imitazione del prototipo originale divino (l’Uomo Primigenio, l’Adamo di Luce), da loro appena intravisto e di cui conservavano uno sbiadito riflesso nella memoria.

Essi crearono l’uomo perché trattenesse imprigionate nella sua parte cosmica (corpo ed anima) le scintille di luce cadute verso il basso (spirito o pneuma).

L’uomo, dunque, nella dottrina gnostica, non è ad immagine e somiglianza di Dio, ma è un’imitazione fallace ed imperfetta del prototipo divino, impastato di materia di Tenebra: “Quel che importa è ciò che hanno in comune queste narrazioni: la nostra temeraria o colpevole improvvisazione, da parte di una divinità deficiente, da un materiale inadatto.” (da “Una rivendicazione del falso Basilide” in “Discussione”, 1931).

Il mondo – ed i cieli che lo avvolgono – costituiscono una prigione, di cui gli arconti sono i tirannici guardiani; essi vigilano affinché le scintille di Luce imprigionate non si ricongiungano con l’Origine.

Infatti, la reintegrazione delle scintille al Pléroma comporterebbe la fine del mondo, la Tenebra.

Il Dio trascendente, fonte di Luce, è affatto estraneo al mondo ed inconoscibile dagli uomini

e dagli arconti: è lo Sconosciuto, il totalmente Altro.

Il mondo è di natura antidivina, perché creazione di potenze malvagie e costituito da materia di Tenebra (contrapposta alla Luce); esso si frappone tra l’uomo e Dio.

L’uomo spirituale o pneumatico nasconde dentro di sé la scintilla di Luce, che è consustanziale a Dio, ma non ne ha coscienza.

Egli, privo della consapevolezza di essere strumento nel piano di redenzione cosmica attraverso la reintegrazione della scintilla di Luce al Pléroma, avverte ansiosamente un sentimento di estraneità al mondo, di solitudine, di paura e di disperazione. “Seppi anche quali uomini disperati e ammirevoli erano stati gli gnostici, e conobbi le loro speculazioni ardenti” (Una rivendicazione del falso Basilide” cit.)

Soltanto la rivelazione soprannaturale (la gnosi) consente all’uomo che possiede la scintilla

(pneuma o spirito) di conoscere, mediante il risveglio, la parte divina del  sé interiore, la sua storia e provenienza, la via del ritorno dello “pneuma” alla Luce originaria.

La concezione gnostica è rigorosamente dualistica: Dio/demiurgo; Dio/mondo; uomo/mondo; spirito/materia. Si tratta di un dualismo radicale, inconciliabile, i cui termini sono contrari, non complementari.

Il simbolismo racchiuso nella dottrina gnostica contribuisce alla comprensione del tema dello specchio nell’opera di Borges e, in particolare, nel racconto in commento.

In primo luogo, lo specchio moltiplicatore abominevole della realtà: appare chiara l’avversione alla moltiplicazione degli uomini, che sono copie imperfette ed infelici dell’originale divino (Uomo Primigenio, Adamo di Luce); e anche quella alla moltiplicazione del mondo, realtà perversa ed odiata, che, non essendo creazione del Dio trascendente, non è veritiero, donde il giudizio dello gnostico, secondo cui “l’Universo visibile è illusione o – più precisamente – sofisma”.

Nel racconto “I Teologi” (in “L’Aleph”, 1949), Borges attribuisce agli gnostici l’affermazione: “quanto vediamo è falso”;

In secondo luogo, lo specchio conoscenza mentale dell’”Altro”.

Quest’ultimo significato del simbolo è molto fertile.

Lo specchio simboleggia la conoscenza mentale della realtà esteriore – la natura e Dio – e della propria interiorità, il Sé, che può costituire la via per conoscere Dio (Il Regno di Dio è dentro di voi, Luca, 17, 21).

Borges, facendo qui riferimento alla dottrina gnostica, orienta il significato da attribuire al simbolo nel racconto.

Infatti, nel saggio “Lo specchio degli enigmi”, in “Altre Inquisizioni”, 1952, egli cita il versetto di San Paolo (I Corinzî, 13, 12) “Videmus nunc per speculum in aenigmate: tunc autem facie ad faciem.”

Adesso vediamo attraverso uno specchio, in maniera confusa, ma poi vedremo faccia a faccia. Nella dottrina cristiana, lo specchio è la metafora di una conoscenza offuscata (in aenigmate), di Dio e del mondo (Sua creazione), che diverrà poi limpida e diretta (facie ad faciem), con l’evoluzione spirituale, etica e mentale dell’uomo, che gli consente di approdare ad una coscienza di fede.

Gli specchi degli ortodossi sono di pietra, sono specchi opachi, perché consentono soltanto una conoscenza imperfetta di Dio, che, tuttavia, è sufficiente a fondare il desiderio e la speranza del Cielo e della Trascendenza, simboleggiati dagli obelischi.

Nella dottrina gnostica, invece, come s’è visto, il dualismo è radicale, Dio è assolutamente ultra mondano, acosmico, trascendente e non è creatore del mondo.

Egli è affatto inconoscibile dall’uomo con le sue sole forze e non è in alcun modo rivelato dal mondo, che è creazione del demiurgo incompetente e malvagio; occorre un intervento soprannaturale, la rivelazione o illuminazione ad opera di entità trascendenti (Eoni, inviati per la raccolta delle particelle di Luce disperse e la loro reintegrazione nel Pléroma); tale rivelazione, detta “gnosi”, consiste nella conoscenza della provenienza della particella di Luce divina custodita dall’uomo e del suo destino.

Lo specchio della conoscenza, nella concezione gnostica, dunque, non riflette assolutamente nulla nella mente, poiché, come detto, questa non può essere raggiunta dall’uomo in autonomia, mediante la sua evoluzione interiore, né gli è suggerita dal mondo naturale, ma è data ad extra, solo all’uomo spirituale, perché la reintegrazione della scintilla di Luce, da lui inconsapevolmente custodita, è funzionale al piano di redenzione cosmica e di riparazione dell’originario errore infradivino.

Esclusa ogni possibilità di autonoma conoscenza di Dio da parte dell’uomo, lo specchio della mente, conserva soltanto la capacità di duplicare e di moltiplicare l’uomo e il mondo, entrambi odiati, ed è, perciò, ancor più abominevole.

Sul punto, non sembra plausibile l’accostamento, operato da qualche critica, degli specchi di pietra alla famosa allegoria del “mito della caverna” di Platone.

Infatti, nel racconto in commento, sono di pietra gli specchi degli ortodossi, non quelli degli gnostici, che sono i platonici.

Infine, l’ultimo tema contenuto nella frase iniziale: L’Enciclopedia, anch’essa simbolo della conoscenza (specchio d’inchiostro) e denominata “speculum” nel Medio Evo.

Essa è specchio del mondo, la cui immagine è letteraria e si riflette nella mente e nella memoria.

Nell’opera di Borges, l’enciclopedia è simbolo dell’Universo. “L’Universo (che altri chiama la Biblioteca)” (“La biblioteca di Babele” in “Finzioni”, 1941).

L’esame della frase d’apertura del racconto ha fornito informazioni sul tipo di linguaggio utilizzato: come s’è visto, si tratta di un linguaggio cifrato ed ermetico, accessibile a pochi. “Bioy Casares …. stava parlando di un suo progetto di romanzo in prima persona, in cui il narratore, omettendo o deformando alcuni fatti, sarebbe incorso in varie contraddizioni, che avrebbero permesso ad alcuni lettori – a pochissimi lettori – di indovinare una realtà atroce o banale.”

(Purtroppo, la traduzione italiana non è fedele al testo originale, che recita: “Bioy Casares había cenado conmigo esa noche y nos demoró una vasta polémica sobre la ejecución de una novela en primera persona .… ”. La differenza è rilevante, in quanto, l’idea del racconto in prima persona volto a confondere il lettore non è di Bioy Casares, ma frutto di un ampio dibattito tra Borges narratore e l’amico scrittore.)

Il racconto che stiamo leggendo è in prima persona, il suo linguaggio è labirintico ed ermetico, è come un testo gnostico, destinato ad iniziati.

Come accade nei labirinti, la comprensione del percorso può essere raggiunta solo alla fine.

Dall’esame di questa prima parte emergono alcuni elementi rilevanti.

Uqbar, voce improbabile di un’Enciclopedia dal titolo ingannevole, sarebbe una regione (immaginaria, perché non si rinviene negli atlanti geografici) dell’Irak o dell’Asia Minore.

Borges narratore riferisce di una fondamentale indeterminatezza della voce enciclopedica; della nebulosità dei confini della regione, indicati in modo autoreferenziale; dell’ambiguità dei  riferimenti geografici interni (di 14 nomi di luoghi geografici, ne indica 3, dicendoli interpolati in modo ambiguo); della povertà dei riferimenti storici: unico personaggio l’impostore Esmerdi il Mago, citato solo per confronto.

Nella sezione «Lingua e Letteratura», v’è un solo luogo notabile: la letteratura di Uqbar è di carattere fantastico, le sue epopee e le sue leggende non si riferiscono mai alla realtà, ma alle due regioni immaginarie di Mlejnas e di Tlön.

Questa è la prima apparizione di Tlön, come regione di Uqbar, a sua volta regione della Terra (Irak o Asia Minore).

E’, dunque, la letteratura fantastica il trait d’union tra i due mondi – anch’essi fantastici – di Uqbar e di Tlön: quest’ultimo è essenzialmente linguaggio ed immaginazione.

Infine, riferisce di 4 riferimenti bibliografici, ma afferma di averne potuto trovare soltanto 2: il primo, attribuito al fittizio Silas Haslam, autore della History of the Land called Uqbar e anche di una General History of Labyrinths (dall’accostamento diviene lecito inferire l’equiparazione di Uqbar ad un labirinto); il secondo, attribuito al teologo tedesco Johannes Valentinus Andreä, che, all’inizio del XVII secolo, aveva descritto la comunità dei Rosacroce, che altri poi fondò realmente sull’esempio di ciò che lui aveva immaginato.

Come apparirà più chiaro in seguito, l’elemento significativo di quest’ultima citazione consiste nella circostanza che Andreä aveva formulato la dottrina dei Rosacroce, basata sull’ermetismo e sullo gnosticismo, che annunciava la riforma del mondo mediante la conoscenza illuminata di pochi adepti segreti, circa 2 secoli prima che essa trovasse concreta applicazione ad opera di altri.

In questa prima parte, Borges-narratore assume un atteggiamento attivo e molto incuriosito; esordisce con una “scoperta”, è sospettoso, compie e promuove indagini per la soluzione degli enigmi che gli si presentano (l’esistenza dell’articolo su Uqbar in un volume di un’improbabile Enciclopedia e dello stesso Uqbar); indossa, quindi, i panni dell’ investigatore.

Ricorrono, dunque, in questa parte gli elementi tipici del genere letterario poliziesco.

Nel racconto “La morte e la bussola”, in “Finzioni”, 1943), il detective Lönnrot, il cui anagramma contiene il nome Tlön, entra nel labirinto per lui tessuto dal cattivo Scharlach e vi rimane intrappolato, pagando con la vita il suo errore.

Anche il racconto in commento, “Tlön, Uqbar, Orbis Tertius”, partecipando dei caratteri propri del genere poliziesco, preannuncia un assassinio, un’eliminazione, una soppressione, un’apocalisse.

Non è ancora possibile immaginare la vittima; tuttavia, l’accento posto dal narratore sul carattere fantastico ed irreale della letteratura di Uqbar, potrebbe sin d’ora costituire l’indizio di una vittima immateriale, ideale, ma con conseguenze concrete.

Uqbar, come s’è visto, è il risultato di una scoperta che si deve alla congiunzione di uno specchio e di un’enciclopedia. L’enciclopedia è essa stessa uno specchio. L’incontro di due specchi contrapposti moltiplica ad infinitum l’immagine e dà luogo alla formazione di un labirinto: Uqbar è, dunque, un labirinto.

Il nome, di origine araba,  simboleggia in Borges un mondo culturale, una cosmovisione, che gli sono consueti e cari: quelli legati allo gnosticismo, al giudaismo e all’islamismo.

In questa cosmovisione, come vedremo, affondano le radici filosofiche del panteismo spinoziano, dell’idealismo empirista di Berkeley e di Hume e dell’idealismo continentale del XIX secolo, sistemi di pensiero di cui Borges s’è particolarmente interessato, sviluppatisi, appunto, in Europa, regione che, nel racconto fantastico, Borges indica con un nome evocativo delle culture germaniche medioevali anch’esse a lui care: Tlön.

 

PARTE  II

 

Nell’Hotel de Adrogué era stato a lungo ospite un ingegnere inglese, Herbert Ashe, una persona priva del senso della realtà, che giocava a scacchi con il padre di Borges-narratore.

Dopo la sua morte, avvenuta nel 1937, Borges venne fortuitamente in possesso di un pacchetto sigillato, che era stato inviato dal Brasile all’ingegnere Ashe, qualche giorno prima che egli morisse, ed era rimasto nel bar dell’Hotel. Con enorme meraviglia, che gli procurò una vertigine stupita, si trovò per le mani l’undicesimo volume della First Encyclopaedia of Tlön. Nella prima pagina e nella velina di una delle tavole era impresso un timbro ovale turchino con la scritta: Orbis Tertius.

Il narratore abbandona i panni dell’investigatore e, vinto dalla meravigliosa sorpresa, si dedica con partecipazione al racconto del mondo di Tlön, risultante dal volume enciclopedico di cui è venuto in possesso.

Tlön è ora un pianeta, con le sue nazioni. Vi impera l’idealismo, segnatamente quello berkeleiano;  la cultura classica comprende ivi una sola disciplina: la psicologia. Non vi si concepisce lo spazio ed anche la successione degli eventi è soltanto un’associazione di idee. Le scuole tlöniste negano il tempo.

Gli oggetti sono immateriali, sono percezioni della mente (Esse est percipi).

Essi vengono convocati o obliati secondo la necessità, nella letteratura secondo la necessità poetica.

La lingua è congetturale e non contempla il sostantivo, che, nell’emisfero australe, è sostituito da verbi impersonali, qualificati da suffissi con valore avverbiale; in quello boreale, da un’accumulazione di aggettivi.

La metafisica è un ramo della letteratura fantastica; la filosofia è un gioco dialettico, una filosofia del “come se”. Il materialismo è motivo di scandalo e chi lo sostiene è eretico.

Il fatto che gli oggetti – i hrönir – siano prodotti del pensiero consente di modificare anche il passato, l’archeologia, la storia.

Non c’è identità personale e il soggetto della conoscenza è ivi unico ed eterno.

Da ciò discende che la letteratura è opera d’un solo autore ed i libri hanno tutti lo stesso argomento, con tutte le permutazioni immaginabili.

Il problema fondamentale è: chi furono gli inventori di Tlön? Si pensa ad una società segreta sotto la direzione di un oscuro uomo di genio. Al principio Tlön apparve come un puro caos, ma ora si sa che è un cosmo, le cui leggi sono opera dell’uomo.

*****

In questa seconda parte del racconto, il ritmo e l’atteggiamento del narratore si modificano.

Dalla febbrile ricerca della prima parte, la condizione si trasforma nella “vertigine stupita e leggera” determinata dal fortuito possesso del volume 11° della “First Encyclopaedia of Tlön”, di 1001 pagine; un’enciclopedia priva di data e di luogo di pubblicazione, che, nella prima pagina e nella velina d’una tavola, reca un timbro ovale, turchino, con l’iscrizione: Orbis Tertius.

Nonostante dichiari di non voler descrivere le proprie emozioni, “ma la storia di Uqbar, di Tlön e dell’Orbis Tertius” (si noti la differente successione dei nomi rispetto al titolo del racconto) il narratore, contraddicendosi, introduce una similitudine poetica: “In una notte dell’Islam che chiamano la Notte delle Notti, si spalancano le porte del cielo e l’acqua si fa più dolce nelle brocche; se queste porte, allora, si fossero aperte non avrei provato quello che provai”.

La similitudine richiama l’atmosfera fantastica e meravigliosa delle Mille e Una Notte, ed il volume dell’Enciclopedia è di Mille e Una pagina.

Il numero 1001 ed il numero 11 (il volume dell’Enciclopedia di Tlön) sono numeri a struttura speculare: 10/01, così 1/1. Essi richiamano il simbolo che moltiplica ed inverte la realtà: anche questa Enciclopedia è ingannevole, è una finzione.

Come s’è già ricordato, nella premessa alla raccolta “Finzioni”, da cui è tratto il racconto, Borges, dichiara espressamente che l’Enciclopedia di Tlön è un libro immaginario.

Anch’essa, in quanto specchio, è abominevole (dal latino abominari): reca un cattivo presagio.

Ma, Borges narratore è entusiasta, ha per le mani “un frammento vasto e metodico della storia totale di un pianeta sconosciuto”, che reca riferimenti a volumi precedenti e successivi, della cui esistenza non v’è certezza e che, comunque, finora non sono stati trovati.

Chi sono gli inventori di questo Nuovo Mondo (brave new world)?Brave New World” è un romanzo di genere utopico di Aldous Huxley (1894-1963).

Tlön è un cosmo, con le sue leggi, anche se formulate “in modo provvisorio”. “L’impossibilità di penetrare il disegno divino dell’universo non può, tuttavia, dissuaderci dal tracciare disegni umani, anche se li sappiamo provvisori”. (da “L’idioma analitico di John Wilkins”, in Altre inquisizioni, 1952).

Un mondo, dunque, creato dagli uomini, si pensa da una società segreta sotto la direzione di un oscuro uomo di genio, capace d’inventare un piano rigoroso e sistematico, com’è il piano di Tlön.

Prima di soffermarsi sulla concezione dell’universo imperante in Tlön,  Borges-narratore ci offre due metafore che anticipano alcuni significati tipici del mondo che si accinge a descrivere:

“io penso che le sue tigri trasparenti e le sue torri di sangue non meritino, forse, la continua attenzione di tutti gli uomini”.

La tigre è tema ricorrente nell’opera di Borges, che simboleggia, tra l’altro, l’universo e le sue leggi: “considerai che anche nei linguaggi umani non c’è proposizione che non implichi l’universo intero: dire la tigre è dire le tigri che la generarono, i cervi e le testuggini che divorò, il pascolo di cui si alimentarono i cervi, la terra che fu madre del pascolo, il cielo che dette luce alla terra.” (“La scrittura del Dio”, in “L’Aleph” 1949).

Su Tlön, le tigri sono trasparenti per due ragioni: per effetto del rigoroso immaterialismo berkeleiano ivi vigente; ma soprattutto per la pretesa della filosofia idealista (pensiero totalizzante) di spiegare l’universo (Tlön è un cosmo, non un caos), che rende trasparenti, chiare, comprensibili le leggi che lo reggono.

Berkeley, introducendo l’Osservatore Eterno, Dio, consente continuità ed ordine al mondo.

La sua dottrina, tuttavia, è obiettabile, come afferma Borges nel racconto stesso: “Hume, una volta per tutte, osservò che gli argomenti di Berkeley non ammettono la minima replica e non infondono la minima convinzione. Questo giudizio è verissimo sulla terra, falsissimo su Tlön.”  Dunque, su Tlön i giudizi sono invertiti rispetto a quelli validi sulla terra, per cui, la dottrina di Berkeley infonde ivi convinzione, tuttavia ammette replica, è cioè opinabile.

Tlön viene così descritto come immagine capovolta della terra, secondo l’effetto dello specchio che inverte.

Si comincia a percepire qui il progressivo accostamento di Borges al pensiero di Hume.

La torre è metafora dell’edificio del sapere, del sistema filosofico; su Tlön le torri sono di sangue, in relazione agli effetti atroci, catastrofici e sanguinosi che, come si vedrà, l’applicazione concreta di quei sistemi filosofici produrranno nel mondo reale, effetti preconizzati nella frase: “… che avrebbero permesso ad alcuni lettori- a pochissimi lettori – di indovinare una realtà atroce o banale”.

Come su rilevato, Borges introduce inoltre, insieme con le metafore esaminate, due ulteriori elementi che assumono significato peculiare, se interpretati alla stregua delle dottrine filosofiche sottese al testo del racconto fantastico: gli aggettivi “continua” e “tutti”.

Nel saggio “Nuova confutazione del tempo” in “Altre inquisizioni” (1946), illustrando i capisaldi del pensiero idealista, egli così motiva il suo indugio sul tema filosofico: “… perché il mio lettore vada penetrando in questo instabile mondo mentale. Un mondo d’impressioni evanescenti; un mondo senza materia né spirito, né oggettivo né soggettivo; un mondo senza l’architettura ideale dello spazio; un mondo fatto di tempo, dell’assoluto tempo uniforme dei Principia; un labirinto irriducibile, un caos, un sogno”.

Come si vede, in modo sintetico, traspare qui una compiuta ed efficace descrizione del mondo di Tlön.

In particolare, Borges, in detto saggio, utilizzando gli argomenti con cui gli idealisti Berkeley e Hume negano, rispettivamente, la materia e lo spirito, nega il tempo e la continuità (è evidente

l’ascendenza del dinamismo eracliteo del  “πάντα ῥεῖ”, tutto scorre).

Egli nega sia la successione, sia il sincronismo, la contemporaneità, in quanto due momenti uguali sono lo stesso momento: “possiamo postulare, nella mente di un individuo (o di due individui che si ignorano, ma nei quali si opera lo stesso processo), due momenti uguali. Postulata tale uguaglianza, si può chiedere: questi momenti identici, non sono lo stesso momento?”. (“Nuova confutazione del tempo”, I parte, 1944).

Negata la successione temporale, Borges perviene al presentismo, cioè alla negazione del passato e del futuro.

“Attraverso la dialettica di Berkeley e di Hume sono arrivato all’opinione di Schopenhauer:

«La forma dell’apparizione della volontà è solo il presente, non il passato né il futuro; questi non esistono se non per il concetto e per l’incatenamento della coscienza, sottoposta al principio di ragione. Nessuno ha vissuto nel passato, nessuno vivrà nel futuro: il presente è la forma di ogni vita, è un possesso che nessun male può strapparle…»”.  (“Nuova confutazione del tempo”, parte II, 1946).

Infine, nella frase “non meritino, forse l’attenzione di tutti gli uomini”, Borges sottolinea “tutti” perché: “se il tempo è un processo mentale, come possono condividerlo migliaia di uomini?”.

Borges è un letterato, non un filosofo. Egli è particolarmente attratto dal dubbio metafisico, ma non perde mai, quando utilizza questi argomenti nei suoi scritti, anche in quelli a carattere  saggistico, la capacità di sorridere e di fare ironia. Per lui tutto è relativo, non ci sono certezze e le soluzioni si biforcano sempre.

Il saggio “Nuova confutazione del tempo”, la cui conoscenza è imprescindibile per una più consapevole lettura del racconto in esame, reca una confutazione della dottrina idealista, soprattutto nella sua espressione radicale di Berkeley e di Hume, condotta con sottile ironia, facendo rilevare come l’applicazione degli argomenti utilizzati dagli idealisti per negare la materia, lo spazio, il soggetto e l’oggetto delle percezioni, comporterebbe anche la negazione del tempo.

Borges, prima, nel prologo, afferma che il saggio “è l’anacronistica reductio ad absurdum di un sistema tramontato”, poi, espressamente nega fede alla sua stessa confutazione (“una confutazione del tempo alla quale io stesso nego fede”) e, infine, chiude il saggio con la bella e famosa considerazione: “And yet, and yet … negare la successione temporale, negare l’io, negare l’universo astronomico, sono disperazioni apparenti e consolazioni segrete. Il nostro destino (a differenza dell’inferno di Swedenborg e dell’inferno della mitologia tibetana) non è spaventoso perché irreale; è spaventoso perché è irreversibile e di ferro. Il tempo è la sostanza di cui sono fatto. Il tempo è un fiume che mi trascina, ma io sono il fiume; è una tigre che mi sbrana, ma io sono la tigre; è un fuoco che mi divora, ma io sono il fuoco. Il mondo, disgraziatamente, è reale;

io, disgraziatamente sono Borges.”

In tal modo, lo scrittore, revocando in dubbio tutto l’ardore idealista del filosofo, fa intravedere, come emergerà ancor più chiaramente dall’analisi del testo e del linguaggio letterario utilizzato nel racconto, come si stia incamminando verso la prefigurazione di un mondo di utopie, che, qualora rimanesse privo degli effetti concreti cui abbiamo prima accennato (realtà atroce), configurerebbe semplicemente l’ipotesi alternativa della “realtà banale”.

Le nazioni di Tlön sono congenitamente idealiste; si tratta dell’idealismo solipsista di Berkeley, un idealismo soggettivo estremo, che nega l’esistenza della realtà esterna, se non come mera rappresentazione della coscienza soggettiva (Esse est percipi).

Ne consegue la negazione della materia e dello spazio: “Il mondo, per coloro, non è un concorso di oggetti nello spazio; è una serie eterogenea di atti indipendenti; è successivo, temporale, non spaziale.”

Tale dottrina ha importanti effetti anche sul linguaggio, che, per Borges, forse ancor più della filosofia, della metafisica e della teologia, è incapace di descrivere la verità dell’universo.

“Nella congetturale Ursprache di Tlön” non esistono i sostantivi.

Il sostantivo, infatti, indica un oggetto (tavolo, sedia, matita, moneta, etc.), che risulta incompatibile con l’immaterialismo della realtà esterna propugnato da Berkeley.

Nell’emisfero australe del pianeta, i sostantivi sono sostituiti da verbi impersonali.

Il verbo designa un’azione ed anche un soggetto; per tale ragione, i verbi sono impersonali.

“Il «penso, dunque sono» cartesiano è invalidato; dire penso è postulare l’io, è una petizione di principio; Lichtenberg, nel secolo XVIII, propose che invece di penso, si dicesse impersonalmente pensa, come si dice tuona o lampeggia.” (“Nuova confutazione del tempo”, parte I, 1944).

Ciò, in quanto, a differenza di Berkeley, Hume, portando a conseguenze estreme l’empirismo, ha negato anche l’identità personale, il soggetto della percezione, che non cade sotto i sensi, e ha fatto di ogni uomo «una collezione o fascio di percezioni, che si succedono l’una all’altra con inconcepibile rapidità».

Non esiste, dunque, né la materia, né lo spirito; né l’oggetto, né il soggetto.

La parola luna si indica, in questo emisfero, con il verbo luneggiare o allunare. Sorse la luna sul fiume si dice hlör u fang axaxaxas mlö.

Così Borges rinvia al racconto “La Biblioteca di Babele”, nel quale il libro “axaxaxas mlö” è il libro totale, cioè “un libro che è la chiave e il compendio perfetto di tutti gli altri libri” (“La Biblioteca di Babele”, in Finzioni, 1941).

Ancora: “L’esercizio delle lettere può promuovere l’ambizione di costruire un libro assoluto, un libro dei libri che li includa tutti come un archetipo platonico, un oggetto la cui virtù non diminuiscano gli anni.” (Da “Nota su Walt Whitman”, in “Discussione”, 1932).

In altri termini, nell’universo letterario è impossibile la novità, in quanto “parlare è incorrere in tautologie.”

In questo modo, egli anticipa contenuti dell’idealismo che esporrà con maggiore dettaglio poco più avanti, allorché parlerà del soggetto unico e dell’inesistenza dell’idea di plagio nella letteratura.

E’ qui presente l’ascendenza dell’idea filosofica platonica, poi ripresa da Hegel, secondo cui non è possibile elaborare o creare concetti nuovi, perché essi sono innati nell’anima, per cui creare è solo ricordare (teoria della reminiscenza).

Nell’emisfero boreale di Tlön, il sostantivo si forma, invece, per accumulazione di aggettivi.

Non si dice luna, ma aereo-chiaro sopra scuro- rotondo. L’aggettivo indica la qualità dell’oggetto ed è da esso inseparabile, onde, l’accumulazione di aggettivi, descrivendo nel dettaglio la qualità dell’oggetto, indicandone cioè colore, forma, dimensioni, etc.,  lo individua.

Questa idea riflette il nominalismo estremo di Berkeley, per il quale non esistono né oggetti

generali, né idee generali, come, invece,  in Platone.

Insieme con l’ evidenziata impronta idealista, traspare nella descrizione dei linguaggi vigenti negli emisferi tlöniani, l’influsso della filosofia di Fritz Mauthner (1849-1923), filosofo boemo, scettico e nominalista, che Borges, nella “Premessa” alla parte “Artifici” della raccolta “Finzioni”, 1944, annovera tra quelli da lui riletti.

Mauthner afferma che il pensiero è linguaggio, il concetto è parola ed è anche metafora; egli individua tre categorie grammaticali, che chiama immagini del mondo: l’aggettivo, il sostantivo e il verbo.

Il mondo aggettivo è, per Mauthner, il mondo delle impressioni sensoriali, dell’esperienza immediata, del dato: esso ci consegna le proprietà delle cose.

Il mondo verbale congiunge le sensazioni mediante l’attività della memoria e le trasforma nel mondo del divenire, il mondo che scorre di Eraclito.

Come si vede, la critica del linguaggio di Mauthner ha forti ascendenze empiriste, derivanti principalmente da Locke, che, nella sua analisi del linguaggio, afferma che le parole sono segni sensibili per le idee, non segni delle cose, il cui contenuto rappresentativo è del tutto soggettivo, donde discende la visione scettica, che suggestiona Borges, secondo cui il linguaggio si riduce all’uso del linguaggio.

La circostanza che gli oggetti esistano solo nel pensiero, essendo ideali, consente di convocarli e discioglierli all’istante, secondo la necessità. Nella letteratura, secondo la necessità poetica.

Borges richiama qui espressamente la teoria degli oggetti del filosofo idealista austriaco Alexius von Meinong (1853 – 1920), che li classifica in reali ed immaginari, esistenti e subsistenti; di quest’ultima specie sono gli oggetti poetici tlönisti.

“Meinong, nella sua teoria dell’apprendimento, ammette quella degli oggetti immaginarî: come la quarta dimensione, o la statua sensibile di Condillac o l’animale ipotetico di Lotze o la radice quadrata di -1”. (“Nuova confutazione del tempo”, “Altre Inquisizioni”, 1952).

Ed ancora, dall’idealismo platonico ed hegeliano deriva l’idea del poema di una sola parola.

E’ il poema che contiene l’Idea dell’Idea, cioè l’Idea di tutte le altre idee, l’idea archetipica.

Quella parola riassume le esperienze, le impressioni, i sentimenti di una vita; le persone conosciute, i luoghi visitati; la parola è tutte queste cose, non considerate singolarmente, ma come un tutt’uno organico: è l’ineffabile essenza di una vita, identifica l’oggetto poetico creato dall’autore.

Essa è meravigliosa e può essere attinta solo in punto di morte.

E’ un’esperienza individuale, privata, soggettiva, irripetibile ed intrasmissibile; è associata alla visione beatifica, alla rivelazione.

Traspaiono qui gl’influssi del pensiero ebraico e cabalistico, molto presenti nell’opera di Borges, pensiero che attribuisce significato mistico a ciascuna parola della Scrittura, addirittura a ciascuna sillaba.

Borges svilupperà queste immagini in due racconti dell’età più matura: “Lo specchio e la Maschera” e “UNDR”, entrambi della raccolta “Il libro di sabbia” del 1975.

Il pensiero tlöniano, come s’è visto, è derivato in gran parte da quello di David Hume.

Secondo questi, la conoscenza è empirica, si basa, cioè, sull’esperienza.

La fonte della conoscenza, è costituita dalle impressioni dei sensi o dalla riflessione, a seconda che si tratti di impressioni esterne o interne. Le idee sono rappresentazioni delle impressioni, loro copie sbiadite.

Le impressioni, dunque, unica fonte di conoscenza veridica, debbono sempre precedere le idee.

La veridicità dell’idea dipende dalla sua corrispondenza ad un’impressione; altrimenti, l’idea è falsa.

Le idee, una volta elaborate, entrano a far parte del bagaglio di esperienza e possono essere tra loro associate, indipendentemente da nuove impressioni.

Da queste premesse, Hume, con grande coerenza logica, fa discendere conseguenze importanti.

La non conoscibilità della sostanza, della materia degli oggetti, già espressa da Berkeley, che, addirittura la negava (immaterialismo).

La non conoscibilità del futuro: non può esserci impressione di ciò che ancora non è.

Dunque, semmai, l’uomo, sulla base di ciò che ha visto accadere altre volte, associa ad un fatto una conseguenza futura, ma su base probabilistica (id quod plerumque accidit), non su base di certezza vincolata. Non c’è nesso di causalità, ma mera associazione di idee.

La non conoscibilità della sostanza spirituale: non c’è impressione dell’io, del soggetto della conoscenza, quello che Berkeley chiama lo spirito pensante.

La non conoscibilità di Dio (sostanza spirituale assoluta ed eterna), per le medesime ragioni.

La conoscenza consiste, dunque, in un meccanismo psicologico di associazione e combinazione delle idee, donde il nome di psicologismo attribuito al suo pensiero.

Essa è limitata dalla capacità sensoriale (empirismo) e, pertanto, produce un profondo scetticismo, cioè il convincimento dell’impossibilità della conoscenza del mondo, dell’io e di Dio.

E’ una concezione fortemente antimetafisica e nichilista.

“I metafisici di Tlön non cercano la verità, e neppure la verosimiglianza, ma la sorpresa. Giudicano la metafisica un ramo della letteratura fantastica.”

Si sarà notato come si sia sempre parlato di “conoscenza”, in quanto Hume non mette in questione il profilo ontologico, ma solo quello gnoseologico: egli, cioè, non nega l’esistenza degli oggetti, dell’io, di Dio, della causalità; più prudentemente, si limita ad affermare che l’uomo non può giungere a conoscerli.

Di qui, Borges: “Non è esagerato affermare che la cultura classica di Tlön comprende una sola disciplina: la psicologia. Le altre le sono subordinate.” Ed ancora: “gli abitanti di questo pianeta concepiscono l’universo come una serie di processi mentali, che non si svolgono nello spazio, ma successivamente nel tempo.” ”Non concepiscono che lo spaziale perduri nel tempo”.

“La percezione di una fumata all’orizzonte, e poi della campagna incendiata, e poi della sigaretta mal spenta che provocò l’incendio, è considerata un esempio di associazione di idee.”

Sia la teoria di Berkeley, sia quella di Hume, invalidano la scienza. La prima, in quanto il suo sensualismo radicale preclude la conoscenza delle quantità non percepibili dai sensi, dunque il molto piccolo. Ciò, all’evidenza, ha un impatto notevole sulla matematica e sulle scienze naturali.

La seconda, in quanto, negando, come visto, il principio di causalità, invalida il metodo sperimentale su cui si basano le scienze esatte.

“Questo monismo o idealismo totale invalida la scienza.”

Borges subisce anche il fascino del pensiero scientifico dei primi del ‘900, in particolare di quell’impressionante serie di scoperte scientifiche che ne rivoluzionarono i principi fondanti.

In Tlön s’avverte l’influenza del principio di indeterminazione di Heisenberg (1927), il quale afferma che nel mondo dell’infinitamente piccolo (meccanica quantistica) non è possibile determinare con precisione simultaneamente la posizione e la velocità degli elettroni intorno al nucleo dell’atomo, in quanto, l’osservatore, per “osservare” utilizza energia, che disturba il sistema osservato.

Ecco la trasposizione letteraria di Borges: “Ogni stato mentale è irriducibile: il solo fatto di nominarlo – id est, di classificarlo – comporta una falsificazione. Da ciò sembrerebbe potersi dedurre che su Tlön non si danno scienze, né ragionamenti di sorta.”

La filosofia su Tlön è soltanto un gioco dialettico, un passatempo dell’immaginazione, una filosofia della finzione. (Philosophie des “Als Ob” = Filosofia del “come se”).

“Le invenzioni della Filosofia non sono meno fantastiche di quelle dell’arte.” (“Magie parziali del «Chisciotte»”, in “Altre Inquisizioni”, 1952).

Ed ancora: “E’ azzardato pensare che una coordinazione di parole (altro non sono le filosofie) possa somigliare di molto all’universo.” (“Metempsicosi della Tartaruga”, in “Discussione”, 1932).

Borges si rifà alla tesi del filosofo idealista tedesco Hans Vaihinger, che nel 1911 pubblicò la sua opera forse più importante, intitolata, appunto, “Die Philosophie des Als Ob”, nella quale, in consonanza con le teorie gnoseologiche di Hume, sostiene la tesi secondo cui la conoscenza è sostanzialmente finzione (come se fosse vero).

Infatti, reali sono soltanto le sensazioni, mentre il pensiero, nell’assimilarle e ordinarle, le trasforma radicalmente, falsificando così la realtà.

Se ne inferisce che la Scienza e la Filosofia, fondate come sono entrambe sulla logica, elaborazione della mente, sono finzioni.

La metafisica è un ramo della letteratura fantastica; anch’essa, infatti, secondo gl’insegnamenti di Hume, non potendosi fondare sull’esperienza dei sensi, sull’impressione, unica fonte di conoscenza, non può essere veridica.

A questo punto, Borges, fedele al proposito di scrivere un racconto ermetico, la cui comprensione sia riservata a pochissimi lettori, introduce un concetto di valore ermeneutico e predittivo.

I metafisici di Tlön “sanno che un sistema non è altro che la subordinazione di tutti gli aspetti dell’universo a uno qualsiasi degli aspetti stessi.”

Il sistema, l’ “universo”, è caratterizzato dalla condizione di equilibrio; ciò è vero in ogni ambito, dal naturalistico al sociale.

La rottura dell’equilibrio, determinata dalla prevalenza di uno qualsiasi degli aspetti sugli altri, crea tensioni, lotte, emarginazione e mette in questione la sopravvivenza del sistema.

In questa ipotesi, l’equilibrio (l’ordine del sistema e la sua simmetria, così care ai tlönisti, rectius agli idealisti) può mantenersi soltanto con l’uso della forza. “Dieci anni fa, bastava una qualunque simmetria con apparenza di ordine – il materialismo dialettico, l’antisemitismo, il nazismo – per mandare in estasi la gente”, così dirà Borges-narratore di qui a breve.

I metafisici di Tlön concepiscono il mondo basato sulla gerarchizzazione tra i diversi suoi aspetti e non sull’equilibrio tra loro; un mondo, cioè, nel quale un aspetto – l’ordine e la simmetria (Tlön è un cosmo fondato su un piano rigoroso e sistematico) – prevalga su tutti gli altri.

L’operazione, come si vedrà, è pericolosa e reca in nuce i germi dell’Apocalisse del sistema stesso. Tale dottrina identifica la “torre di sangue”, che prelude all’”atroce realtà finale”.

Borges, poi, secondo il suo costume, inserisce dei diversivi per distrarre il lettore dal significato della frase appena esaminata, spostando l’attenzione su osservazioni coerenti con il carattere descrittivo di questa parte del racconto, relative all’ espressione «tutti gli aspetti», che rinviano al “presentismo” di Eraclito e di Schopenhauer.

Riprendendo la descrizione del mondo tlöniano, si riallaccia al “presentismo” e  passa in rassegna la concezione del Tempo propugnata dalle sue scuole di pensiero.

Una, stranamente (perché gli idealisti non negano il Tempo), nega il Tempo, ma con argomenti incompleti ed in parte apodittici: infatti, non prende in esame il passato e considera indefinito il presente, senza addurne le motivazioni.

Un’altra, sulla base della dottrina dell’eterno ritorno di derivazione buddista e poi greca, rielaborata da Nietzsche nel 1881, afferma che il Tempo è già tutto trascorso.

Nietzsche affermò che “la storia universale è avvenuta un numero infinito di volte, nell’Eternità anteriore” (Borges, “La dottrina dei cicli”, in  “Storia dell’Eternità”, 1934).

Un’altra scuola, impregnata di gnosticismo, considera che la storia dell’universo è la scrittura di un dio subalterno (un arconte, un demiurgo) per intendersi con un demonio (nella dottrina gnostica, come s’è visto, il demiurgo è esso stesso un demonio, in quanto angelo ribelle al Dio di Luce).

Ancora, altra scuola, di sensibilità cabalistica, vuole che l’universo sia una crittografia dal significato fantastico: “Credo che il mondo geroglifico postulato da Bloy sia quello che meglio conviene alla dignità del Dio intellettuale dei teologi” (da “Lo specchio degli enigmi” in “Altre Inquisizioni”, 1952).

Infine, il tema del doppio. Una scuola sostiene che “mentre dormiamo qui, stiamo svegli dall’altra parte, e che, dunque, ogni uomo è due uomini”.

Tema caro e ricorrente in Borges: “Contagiati forse dai monotoni, immaginarono che ogni uomo è due uomini e che il vero è l’altro, quello che sta in cielo. Immaginarono anche che i nostri atti gettino un riflesso invertito, di modo che se noi vegliamo, l’altro dorme, se fornichiamo, l’altro è casto, se rubiamo, l’altro dà del suo. Morti, ci uniremo a lui e saremo lui.” (da “I Teologi”, in “L’Aleph”, 1949).

“Il concetto del doppio è comune a molti popoli antichi. Esso è nato dai fratelli gemelli, dall’acqua, dallo specchio. E’ lecito pensare che la massima di Pitagora «Un amico è un altro io», o la massima di Socrate «Conosci te stesso», siano derivate da quell’antico concetto. Come dico nell’Epilogo del “Libro di sabbia”, uno dei primi appellativi del doppio era «Alter ego». In Germania veniva chiamato Doppelgänger, il doppio che ci cammina accanto, che diventa poi l’idea di Jekyll e Hyde e poi ancora l’idea sulla pluralità dell’io, ossia che siamo noi stessi e siamo altri.” (da “Colloqui esclusivi con il grande scrittore argentino” di Costanzo Costantini, Sovera, 2003).

Emergono rimembranze del pensiero greco, in particolare di quello di Eraclito e della sua concezione dinamica degli opposti da cui scaturisce l’unità: “E’ la stessa cosa il vivo ed il morto, il desto e il dormiente, il giovane ed il vecchio: giacché ognuno di questi opposti mutandosi è l’altro e a sua volta l’altro mutandosi è l’uno” (Eraclito, frammento n. 88). “… ortodosso ed eretico, aborritore e aborrito, accusatore e vittima erano una sola persona.” (Borges, “I Teologi”, op. cit.).

D’altronde, la dottrina del continuo divenire mette in crisi la continuità degli oggetti (Berkeley) ed anche quella del soggetto (Hume), cioè dell’io, dell’identità personale; in questa misura, il pensiero idealista inglese del XVIII secolo è tributario della concezione dinamica di Eraclito.

Gli influssi del pensiero di Platone ed in particolare la sua concezione del mondo degli archetipi come permanente, atemporale ed immutabile, la prevalenza degli Universali sui singolari, dell’Identità generica su quella individuale, traspaiono nella su riferita affermazione di Borges “… il vero è l’altro, quello che sta in cielo”.

Inoltre, consentono di risolvere in unità le apparenti opposizioni eraclitee e borgesiane.

Infatti, carnefice e vittima partecipano della medesima sofferenza universale ed archetipica, di cui partecipano tutti gli uomini. “Terminato il suo compito di giustiziere, adesso era nessuno. A dir meglio era l’altro.” (Borges, “La Fine”, in “Finzioni”, 1944).

A questo punto, Borges si sofferma sul concetto di immaterialismo proprio del pensiero di Berkeley . E lo fa con una parabola attribuita ad un eresiarca di Tlön, che intitola “sofisma delle nove monete di rame.”

La negazione dell’esistenza in sé degli oggetti materiali è qui comprovata mediante la negazione della loro continuità e identità.

Non è possibile che gli oggetti esistano mentre non sono percepiti da nessuno (Esse est percipi). L’eresiarca, però, con la “perfida circostanza di quell’ «un poco arrugginite per la pioggia del mercoledì»”, vuol dimostrare la persistenza delle quattro monete tra il martedì ed il giovedì.

Ma chi dice che si trattasse delle stesse monete? Erano sì eguali, ma non identiche.

La fallacia del concetto di identità è provata con un ragionamento per absurdum: nove uomini provano per nove notti successive un vivo dolore; ciò significa che il dolore sia lo stesso, cioè identico, un unico dolore?

Ma Borges si diverte a confondere le idee del lettore ed in nota riferisce che, in controtendenza, una delle chiese di Tlön sostiene «platonicamente», cioè valorizzando il concetto platonico della partecipazione di ogni idea all’Idea archetipica, universale ed immutabile, dunque identica per chiunque, che certe cose costituiscono l’unica realtà. Ne deriva che, per estensione, tutti gli uomini, nel vertiginoso istante del coito, sono lo stesso uomo; tutti gli uomini che ripetono un verso di Shakespeare, sono William Shakespeare.

Da un lato, dunque, Eraclito, Berkeley e Hume, con il “tutto scorre”, che legittima la negazione dell’identità: tutto si trasforma nel tempo.

Dall’altro, Parmenide, Platone, Plotino e Schopenhauer con l’unicità ed immutabilità dell’essere e la negazione del movimento e della pluralità.

“Dice Plotino con evidente fervore: «Ogni cosa nel cielo intelligibile è anche cielo, e lì la terra è cielo, come lo sono gli animali, le piante, gli uomini e il mare. …. Tutti stanno dappertutto, e tutto è tutto. Ogni cosa è tutte le cose.” (Borges, “Storia dell’Eternità”, 1953).

Ancora in “Storia dell’Eternità”, Borges attribuisce a Schopenhauer questo pensiero: “Un’infinita durata ha preceduto la mia nascita, che cosa sono stato intanto? … Io sono sempre stato io; cioè chiunque disse io durante quel tempo, altri non era che io.”

E in “La forma della spada”(“Finzioni”, 1942): “Forse Schopenhauer ha ragione; io sono gli altri, ogni uomo è tutti gli uomini, Shakespeare è in qualche modo il miserabile John Vincent Moon”.

Quindi, Borges racconta che cento anni dopo, su Tlön, un pensatore ortodosso formulò l’audace ipotesi che esiste un solo soggetto indivisibile che è ciascuno degli esseri dell’universo, i quali sono organi e maschere della divinità. “Berkeley affermò l’esistenza continua degli oggetti, perché quando non li percepisce un individuo, li percepisce Dio” (“Nuova confutazione del Tempo”, in Altre Inquisizioni, 1944). Dunque, potrebbe sembrare che il soggetto unico ed indivisibile sia l’Osservatore eterno di Berkeley, Dio.

A ben vedere, però, il soggetto unico ed indivisibile che governa Tlön, e di cui gli esseri sono organi e maschere, non può essere il Dio di Berkeley, cioè il Dio onnipotente e personale della Bibbia.

Si tratta piuttosto di una concezione panteista, per cui Dio è la sostanza di tutte le cose, le quali sono semplici modi di essere dei suoi attributi: “organi e maschere della divinità”.

Questa concezione panteista, che Borges aggettiva come “idealista” perché il principio assoluto della realtà, anche se l’etimo della parola contiene il suffisso Theòs, non deve necessariamente intendersi in senso strettamente religioso, s’impose su Tlön – ciò s’inferisce dall’undicesimo tomo dell’Enciclopedia – per tre ragioni fondamentali:

primo, il ripudio del solipsismo (Borges, che era partito da Berkeley, il filosofo del solipsismo, approda, tramite Spinoza e Schopenhauer e i loro, pur differenti, panteismi idealisti, a questa dottrina della realtà, secondo cui la realtà stessa, essendo sostanziata dal principio divino, che è immanente, non è condizionata dalla percezione di una coscienza isolata, come nella concezione solipsistica di Berkeley dell’ “esse est percipi”);

secondo, la conservazione della base psicologica delle scienze, coerentemente con la gnoseologia di Hume;

terzo, la conservazione del culto degli dei (il panteismo, affermando l’immanenza della divinità, non impedisce, tuttavia, che essa si declini nei suoi diversi modi di essere (diverse divinità), ferma rimanendo l’unicità della sostanza, propria della concezione monista).

“Schopenhauer (l’appassionato e lucido Schopenhauer) formula una dottrina molto simile nel primo volume dei Parerga und Paralipomena.”

Traspare qui la condivisione di Borges, sia pure mediatamente.

Le dottrine di Tlön contemplano, dice Borges narratore, la geometria e l’aritmetica.

Poco prima, aprendo questa parte descrittiva della concezione dell’universo su Tlön, aveva però detto: “Il mondo, per coloro, non è un concorso di oggetti nello spazio; è una serie eterogenea di atti indipendenti; è successivo, temporale, non spaziale”.

Adesso, con qualche contraddizione atta a confondere il lettore ma anche a sfumare le differenze tra il mondo immaginario di Tlön ed il nostro, c’informa dell’esistenza di una scienza, su Tlön, che studia la metrica dello spazio: la geometria.

Lo spazio, per l’empirismo di Berkeley e di Hume, non esiste in assoluto, come idea astratta, in quanto non sarebbe percepibile dai sensi; esso costituisce soltanto una percezione soggettiva della mente, cioè un’idea (non astratta), derivata da impressioni specifiche, relative agli oggetti particolari che sono in esso distribuiti in un certo ordine.

L’idealismo empirista di Berkeley e di Hume, dunque, annettendo, come visto, fondamentale importanza alla percezione mediante i sensi ai fini cognitivi, comporta che la geometria – che studia la metrica dell’estensione spaziale – si suddivida in due discipline, la visuale e la tattile; ciò per l’assunto che un’estensione astratta non esiste, esiste soltanto quella che cade sotto i sensi, cioè l’estensione visiva o tattile.

La prima costituisce l’oggetto della geometria piana; infatti, secondo Berkeley, la sola visione non consente di apprezzare direttamente la distanza in sé, dunque, la profondità; la seconda, invece, è tridimensionale, perché il tatto consente di apprezzare la terza dimensione, cioè  il volume.

La geometria tridimensionale corrisponde alla nostra, ma le regole fondamentali che la governano (gli assiomi di Euclide) furono dettati per la geometria piana – quella visiva – onde è il piano, non il punto, l’ente geometrico su cui la geometria visiva si basa e quella tattile le è subordinata.

A questo punto, Borges narratore compie un salto cronologico, cui è sottesa un’evoluzione del pensiero scientifico, che, nella specifica parte descrittiva delle scienze matematiche, risulta  congruente con quella di ordine generale, che rileveremo caratterizzare l’intero racconto.

“Questa geometria ignora le parallele e dichiara che l’uomo che si sposta modifica le forme che lo circondano.”

Si passa dalla teoria della visione di Berkeley  del 1709 alla teoria della relatività generale di Einstein del 1916, transitando per le geometrie non euclidee che ne costituiscono il presupposto, in particolare quella ellittica di Riemann del 1854.

Infatti, la geometria di Riemann abbandona il piano euclideo ed è costruita su una superficie curva, introducendo il concetto di spazio curvo che anticipa gli approdi della relatività generale di Einstein.

Sulla superficie curva, ad esempio una sfera, le rette sono costituite dai cerchi massimi; questi s’intersecano necessariamente tra loro, per cui, in questa geometria non euclidea, non esistono le parallele.

La teoria della relatività generale, dal canto suo, relativizza lo spaziotempo, campo a 4 dimensioni, in quanto considera assoluto soltanto il valore della velocità della luce.

Secondo essa, la massa di un corpo curva lo spaziotempo, cioè lo modifica, per effetto della nota relazione di Einstein che lega i valori dell’energia e della massa mediante il valore costante della velocità della luce (E= mc²).

Seguendo analogo percorso evolutivo, Borges narratore riferisce adesso notizie sull’aritmetica di Tlön.

Anche per essa, così come per la geometria, Borges prende le mosse dal concetto di numero elaborato da Berkeley: “Il numero si definisce come una collezione di unità; e non esistendo l’unità o l’uno in astratto, dobbiamo concludere che non esiste il numero in astratto, che possa essere rappresentato da cifre o da nomi. Di conseguenza le teorie aritmetiche, se si esplicitano in cifre e numeri e prescindono da ogni uso pratico … sono carenti di oggetto.” (Questione n. 120 del “Trattato dei Principi della Conoscenza umana” di George Berkeley).

Borges è suggestionato da questa nozione di numero indefinito (una collezione di unità): cioè il numero di uccelli di uno stormo, il numero di aghi di un pino, e così via; numeri esistenti ma sconosciuti.

Ne parla sia in “La perpetua corsa di Achille e della tartaruga”, in “Discussione”, 1932, sia in “La dottrina dei cicli”, in “Storia dell’Eternità”, 1934.

In entrambi i saggi porta ad esempio di numero indefinito il numero di primogeniti d’Egitto che non furono uccisi dall’Angelo perché le loro case erano contrassegnate con un segno rosso: “tanti se ne salvarono quanti segni rossi c’erano, senza che questo ci costringa a enumerare quanti furono. Qui è indefinita la quantità.”

E’ reso manifesto da Borges il riferimento alla teoria degli insiemi di Georg Cantor: collezione di unità.

Più tardi, Borges tornerà ancora sulla sua definizione di numero indefinito nel breve poemetto in prosa intitolato “Argumentum Ornithologicum”, in “L’Artefice”, 1960, successivo a “Tlön, Uqbar, Orbis Tertius”. Il titolo parafrasa l’ ”Argumentum ontologicum” di Sant’Anselmo.

In esso così si esprime:

“Chiudo gli occhi e vedo uno stormo di uccelli. La visione dura un secondo o forse meno; non so quanti uccelli ho visti. Era definito o indefinito il loro numero? Il problema implica quello dell’esistenza di Dio. Se Dio esiste, il numero è definito, perché Dio sa quanti furono gli uccelli. Se Dio non esiste, il numero è indefinito, perché nessuno poté contarli. In tal caso, ho visto meno di dieci uccelli (per esempio) e più di uno, ma non ne ho visti nove né otto né sette né sei né cinque né quattro né tre né due. Ho visto un numero di uccelli che sta tra il dieci e l’uno, e che non è nove né otto né sette né sei né cinque, eccetera. Codesto numero intero è inconcepibile; ergo, Dio esiste.”

Al di là della singolare prova dell’esistenza di Dio, s’inferisce il significato di numero indefinito per Borges: si tratta, evidentemente, di un numero sconosciuto, imprecisato; un numero che pone, dunque, una questione gnoseologica, più che ontologica.

Traspare il suo pessimismo, che è innanzitutto gnoseologico: l’uomo non può attingere alcuna verità con la propria limitata ragione.

Per Hume, l’aritmetica è l’unica materia interamente costruita su assiomi posti dalla mente e muniti di grande rigore logico, la cui verità è indipendente dalla realtà esterna e dall’esperienza (conoscenza a priori).

Essa, considerata come scienza formale, possiede carattere di certezza scientifica, in quanto il pensiero è in grado di elaborarla da sé stesso, senza necessità di far ricorso all’esperienza.

Questa qualità di certezza ed esattezza riguarda, però, soltanto i principi che regolano la connessione ed associazione di idee, che, in quanto operazioni di puro pensiero, non implicano contraddizioni; in quest’ambito rientrano le relazioni di ordine tra i numeri, che costituiscono gli  enti fondativi dell’aritmetica.

In caso di applicazione pratica, invece, anche la matematica diviene sperimentale, venendo in causa il confronto delle relazioni con l’esperienza, e perde il carattere della certezza.

Gli abitanti di Tlön, pianeta in cui vige l’idealismo empirista di Hume, accentuano, per tali ragioni, l’importanza dei concetti di maggiore e minore  (˃ e ˂), che costituiscono esempi tipici di relazioni di ordine tra numeri ed affermano che una quantità indefinita (una collezione di numeri di entità ignota) se viene definita mediante il conteggio risulta modificata.

E’ evidente l’allusione al passaggio dal realismo platonico (l’idea astratta, il numero indefinito) al nominalismo di Hume ed anche di Borges, da questi perorato in “Dalle Allegorie al Romanzo” (1949), nella raccolta “Altre Inquisizioni”: “Il nominalismo, un tempo novità di pochi, oggi abbraccia tutti gli uomini; la sua vittoria è tanto vasta e fondamentale che il suo nome è inutile. Nessuno si dichiara nominalista perché non c’è nessuno che sia altro.”

Ancora humiano è il concetto secondo cui diversi individui che calcolino una stessa quantità giungano a risultati eguali: si tratta, come afferma Borges, per gli psicologi di Tlön di un esempio di associazione di idee o di buon esercizio della memoria.

Adesso Borges ritorna sul concetto di unicità ed eternità del soggetto della conoscenza, espresso poco prima nel racconto, su cui ci siamo già soffermati, e lo applica all’ambito letterario.

Sennonché, anche qui introduce nel racconto tesi contraddittorie per confondere il lettore.

Egli attribuisce ai tlönisti la tesi di Hume del rifiuto del soggetto e dell’identità personale, che non è coincidente con quella dell’esistenza del soggetto unico ed eterno della conoscenza: il Dio di Berkeley, osservatore unico, eterno e trascendente o il Dio di Spinoza, unica sostanza immanente (panteismo).

Come s’è appena osservato, la negazione dell’identità personale, che caratterizza il pensiero di David Hume, trova la sua ascendenza nel πάντα ῥεῖ (tutto scorre) di Eraclito, che non consente la continuità, né del soggetto, né dell’oggetto. La carenza di soggetto, cioè di autore, conduce alla conseguente inconfigurabilità della nozione di plagio.

Certo, la traslazione in letteratura fantastica del pensiero filosofico consente all’autore una libertà argomentativa che è negata al filosofo, condizionato dal rigore del ragionamento logico.

Nell’opera di Borges, l’idea dell’autore unico, ed anche quella della profonda unità dell’arte in sé, che prescinde dall’autore, è ripresa più volte ed è espressamente ricollegata al pensiero panteista.

Ne “Il fiore di Coleridge”, in “Altre Inquisizioni”, 1952, egli così si esprime: “Il panteista il quale afferma che la pluralità degli autori è illusoria, trova inaspettato appoggio nel classicista, per il quale tale pluralità ha scarsa importanza. Per le menti classiche, l’essenziale è la letteratura, non gli individui.”

Ricorrente è, in Borges, anche il pensiero che l’artista s’identifica con le proprie creazioni, come il Dio immanente. Quest’idea panteista è espressa in diverse opere.

Nel saggio “Da Qualcuno a Nessuno” in “Altre Inquisizioni”, 1950, Borges riferisce: “Maurice Morgan, nel 1974, afferma che Re Lear e Falstaff non sono altro che forme della mente del loro inventore; al principio del secolo XIX, questo giudizio è ripreso da Coleridge , per il quale Shakespeare non è un uomo ma una variazione letteraria del Dio infinito di Spinoza: «La persona di Shakespeare» egli scrive, «fu una natura naturata, un effetto, ma l’universale, che è potenzialmente nel particolare, gli fu rivelato, non come astratto dall’osservazione di una pluralità di casi, ma come la sostanza capace di infinite modificazioni, delle quali la sua esistenza personale era solo una». Hazlitt corrobora o conferma: «Shakespeare somigliava a tutti gli uomini, tranne in ciò, che somigliava a tutti gli uomini. Intimamente non era nulla, ma era tutto ciò che sono gli altri, o ciò che possono essere».”

Quest’ultima idea è ripresa da Borges nel 1960, nel racconto “Everything and Nothing”, in “L’Artefice”, interamente dedicato a Shakespeare, che si conclude con questa bellissima immagine: “La storia aggiunge che, prima di morire o dopo morto, si seppe di fronte a Dio e gli disse: «Io, che tanti uomini sono stato invano, voglio essere uno ed io». La voce di Dio gli rispose da un turbine: «Neanch’io sono; io sognai il mondo come tu sognasti la tua opera, mio Shakespeare, e tra le forme del mio sogno sei tu, che come me sei tanti e nessuno».”

A fronte dell’idealismo o del panteismo idealista degli abitanti di Tlön, che fanno loro concepire, come visto, l’unicità dell’autore letterario e la sua immedesimazione nell’opera d’arte, la critica è, in quel pianeta, eretica, cioè realista, perché crede nell’identità personale e nella continuità del soggetto e, ambendo a divenire una scienza, è persino naturalista.

Borges si diverte a burlarsi della critica letteraria, che qui su Tlön, “inventa” autori, oppure attribuisce allo stesso autore due opere dissimili.

Il rapporto con la critica letteraria ha sempre formato oggetto di approccio ironico da parte di Borges: “Le Università preferiscono la bibliografia alla lettura dei libri. … Io desidererei che questo volume [Antologia poetica 1923-1977] venisse letto sub quadam specie aeternitatis.” (Prologo all’”Antologia poetica”, 1983).

La burla sul naturalismo e sul descrittivismo viene espressa con giocoso garbo nel breve racconto “Del rigore nella scienza”, in “L’Artefice”, 1960.

Ma, ancor più, il tema della critica venne affidato al personaggio inventato insieme con Bioy Casares:  Honorio Bustos Domecq.

Questi, secondo la classificazione degli uomini che Borges attribuisce a Coleridge nel saggio “Dalle Allegorie ai Romanzi”, in “Altre Inquisizioni”, nacque aristotelico, non platonico.

La raccolta “Cronache di Bustos Domecq” (1967) è formata da divertenti racconti e saggi scritti dal  “critico” Honorio Bustos Domecq, nei quali la burla ironica, la parodia, talora anche l’inganno, campeggiano eleganti e distaccati.

Il racconto “Naturalismo al Día” (abbozzato già nel 1939) mette alla berlina il naturalismo descrittivista della critica letteraria di Hilario Lambkin Formento, che, per essere obiettivo, escludeva, nella sua funzione di chiosatore, ogni elogio ed ogni censura.

Egli, dopo anni di attività, consistita nella diligente descrizione di ogni dettaglio delle opere a suo commento: il formato del volume, espresso in centimetri, il suo peso specifico, la qualità dell’inchiostro utilizzato, l’odore ed il colore del foglio, la veste tipografica, e così via, decise di rinunciare a questo lavoro, per dedicarsi al commento della Divina Commedia.

Impiegò sette anni per pubblicare la sua opera formata da tre volumi: Inferno, Purgatorio e Paradiso, ma non fu compreso dal pubblico, né dai colleghi e ne morì.

Occorse l’autorevole intervento di Honorio Bustos Domecq, per richiamare l’attenzione di tutti sul prestigioso lavoro.

Egli formulò l’ipotesi che Lambkin Formento fosse venuto in possesso di un’opera rara del XVII secolo, intitolata “Viaggi di Varone Prudente”, il cui libro IV riferisce del lavoro di un collegio di cartografi che volle erigere una mappa perfetta dell’Impero, che, per esser tale, era estesa quanto l’Impero stesso. (Questa parte del racconto è la medesima pubblicata sotto il titolo “Del rigore nella scienza”, dianzi citata).

Con la sua consueta perspicacia, Lambkin Formento osservò dinanzi ad un gruppo di amici che una mappa geografica in scala naturale avrebbe procurato sicuramente gravi difficoltà; ritenne, invece, che l’analogo procedimento ben avrebbe potuto essere applicato alla critica letteraria.

Da quel momento, dunque, redigere una mappa fedele della Divina Commedia sarebbe divenuto lo scopo della sua vita.

Dopo diversi approcci sempre più affinati, finalmente intuì che la descrizione del Poema, per essere perfetta, doveva coincidere parola per parola con il poema stesso. Fu così inaugurato a Buenos Aires il primo monumento di critica realista-descrittivista.

Si noti la forte analogia tra i personaggi di Lambkin Formento e di Pierre Menard, autore del «Chisciotte», anch’esso del 1939.

La critica realista ama, su Tlön, una volta inventato l’autore, passare subito a determinarne, con diligenza, la psicologia.

Appare evidente la satira verso una critica che, con diligenza, essendo descrittivista, esamina la psicologia di un autore inventato, dunque inesistente, anziché occuparsi del valore intrinseco dell’opera letteraria.

Ma, anche le opere sono indifferenziate: esse hanno tutte lo stesso argomento, con tutte le permutazioni immaginabili. Campeggia qui, come s’è visto, l’idealismo platonico, il concetto di Idea archetipica.

Nihil sub sole novi: creare è ricordare, tutto è rielaborazione (teoria della reminiscenza).

“… Shelley aveva opinato che tutti i poemi del passato, del presente e dell’avvenire, sono episodi o frammenti d’un solo poema infinito, composto da tutti i poeti del mondo (A Defence of Poetry, 1821)” da “Il Fiore di Coleridge”, in “Altre Inquisizioni” (1952).

Traspare anche l’eco della teoria dell’Eterno Ritorno, della ciclicità della Storia, da Borges già illustrata nei due saggi “La dottrina dei Cicli” e “Il Tempo circolare”, entrambi in “Storia dell’Eternità” (1934).

Ivi, egli ripercorre le tappe di questo pensiero, su cui si fonda l’idea della necessità della ripetizione degli eventi e quella presupposta della limitatezza delle possibili loro permutazioni.

Essa fu teorizzata, tra tanti, da David Hume, nei “Dialoghi sulla Religione naturale” (1779), di cui Borges riferisce un passo ne “Il Tempo circolare” e, con maggior passione, da Nietzsche, i cui passaggi sono ampiamente citati nei due saggi citati.

Da Schopenhauer riceve la suggestione della Storia come sogno.

Nel saggio-conferenza “Nathaniel Hawthorne” in “Altre Inquisizioni”, 1952, egli cita i Parerga und Paralipomena di Schopenhauer, nel passaggio in cui questi paragona la Storia “a un caleidoscopio, nel quale cambiano le figure, non i pezzetti di vetro, e a una eterna e confusa tragicommedia nella quale cambiano le parti e le maschere, ma non gli attori.”

Ancora, nel saggio “Da qualcuno a nessuno”, in “Altre Inquisizioni”, ricorda che  “Schopenhauer ha scritto che la storia è un interminabile e incerto sogno delle generazioni umane; nel sogno sono forme che si ripetono, forse non vi sono che forme;”.

La negazione di qualsiasi novità conduce al corollario che le esperienze dell’uomo sono in qualche modo analoghe.

Ne discende che “Se i destini di Edgar Allan Poe, dei vichinghi, di Giuda Iscariota e del mio lettore sono segretamente lo stesso destino – l’unico destino possibile – la storia universale è quella di un solo uomo.” (da “Il Tempo circolare”, cit.).

In “Storie di Cavalieri” da “Evaristo Carriego”, 1930, Borges afferma: “Distanti nel tempo e nello spazio, le storie che ho accostato sono una sola storia; il protagonista è eterno…”.

I libri di Filosofia contengono la tesi e l’antitesi, il pro e il contra di ogni dottrina.

Così Borges introduce un riferimento importante e diretto all’idealismo dialettico di Hegel.

Si vedrà, nella parte relativa al significato del racconto, quanto sia fertile tale riferimento.

Infatti, coerentemente con il deliberato proposito del “confondimento” del lettore, attuato anche mediante l’omissione di alcuni fatti, i pensieri filosofici sottesi al racconto – ed espressamente indicati mediante la citazione dei rispettivi pensatori – sembrerebbero essere l’empirismo inglese di Berkeley e di Hume ed i – sia pur differenti – panteismi di Spinoza e di Schopenhauer; ma, ad un livello più profondo, come sarà possibile rilevare, il pensiero di riferimento, utile alla più compiuta intelligenza del significato del racconto, è l’idealismo hegeliano, sebbene mai espressamente richiamato.

Ogni libro, per non essere incompleto, deve contenere il suo contralibro, cioè deve prevenire ed esaminare le possibili obiezioni alle tesi in esso spiegate.

In una nota in calce alla “Nota su Walt Whitman”, in “Discussione” (1932), Borges afferma: “… le più gravi obiezioni a qualsiasi dottrina filosofica spesso preesistono nell’opera che la proclama. Platone, nel Parmenide, anticipa l’argomento del terzo uomo che gli opporrà Aristotele, Berkeley (Dialoghi, 3), le confutazioni di Hume.”

 

Fin qui, Borges ha immaginato in modo minuzioso l’impatto dell’idealismo di Berkeley, di Hume e, in parte, anche di quello di Schopenhauer, sui saperi nel pianeta Tlön: dalla letteratura, al linguaggio; dalla poesia, alla filosofia; dalla geometria, all’aritmetica.

Dunque, l’impatto di un pensiero totalizzante, qual è, appunto, l’idealismo, su specifici rami di pensiero.

Adesso, passa ad esaminare l’influsso dello stesso pensiero sulla realtà.

Ma, su Tlön,  la realtà, come s’è visto, è immateriale, il materialismo suscita scandalo. Ne derivano conseguenze rilevanti.

Se la realtà è solo nella mente, secondo l’idealismo soggettivista di Berkeley, questa può plasmarla con meri propri atti di pensiero.

Dunque, se il soggetto pensante dimentica qualcosa, questa sparisce; viceversa, se la ricorda, la riconvoca all’esistenza.

Infatti, gli oggetti mentali, gli oggetti del pensiero, sono soltanto idee che si formano nella mente attraverso i sensi che ne percepiscono le qualità sensibili (colore, odore, sapore, forma, suono, etc.) ed esistono solo nella mente, mentre nulla c’è fuori di essa.

Da ciò discende che un oggetto dimenticato è perduto; esso però può essere duplicato, cioè riprodotto, attraverso le funzioni della mente: la memoria ed il pensiero.

La possibilità di riconvocare all’esistenza oggetti perduti apre inattese possibilità all’archeologia e consente di modificare il passato, rendendolo plastico come il futuro.

Questi oggetti secondari, immagini di quelli perduti, su Tlön si chiamano hrönir, plurale di hrön.

Il hrön costituisce, dunque, la metafora della metamorfosi della realtà ad opera del pensiero, e, consentendo di modificare il passato, è, altresì, la metafora della memoria e della storia.

La negazione della storia come scienza rimanda alla concezione di Schopenhauer: la storia è sogno.

Borges introduce, adesso, ancora altro elemento che esula dall’idealismo di Berkeley:

“Due persone cercano una matita; la prima la trova e non dice nulla; la seconda trova una seconda matita, non meno reale, ma più attagliata alla sua aspettativa.” (Nella traduzione in italiano, purtroppo, c’è una svista: viene detto “meno attagliata” anziché “più attagliata”; il testo spagnolo recita: “más ajustado”).

L’introduzione del concetto di aspettativa, cioè di desiderio, fa traslare il riferimento al pensiero filosofico sottostante, da Berkeley a Schopenhauer.

Infatti, la soddisfazione di un’aspettativa, di un desiderio, di una mancanza, di un bisogno, evoca il concetto di Volontà (Wille), nella filosofia di Schopenhauer.

La volontà, in Schopenhauer, si ricollega alla cosa in sé, esistente a prescindere dalla percezione, perciò altro e diverso dalla rappresentazione del mondo; la cosa in sé, in Schopenhauer, ha realtà corporea, materiale.

Borges, dunque, si va allontanando dall’idealismo immaterialista di Berkeley, che fin qui era stato imperante su Tlön, ed inizia un percorso di graduale avvicinamento del mondo immaginario tlöniano a quello della Terra; più oltre, nella terza parte del racconto, vedremo che, addirittura, riferirà come nell’edizione completa dell’Encyclopedia di Tlön, che sarà trovata a Memphis, “alcuni passi incredibili dell’«undicesimo volume» (quelli, per esempio, sulla moltiplicazione dei hrönir) sono stati eliminati o attenuati; è ragionevole pensare che queste correzioni corrispondono all’intenzione di presentare un mondo non troppo incompatibile con il mondo reale.”

Inoltre, sempre nella parte terza del racconto, vedremo, altresì, come, narrando dell’intrusione di Tlön nel nostro mondo terrestre, farà riferimento ad oggetti da lì provenienti, che sono assolutamente materiali; in una nota al testo, dirà: “Resta da risolvere, naturalmente, il problema della materia di alcuni di questi oggetti.”

Se i hrönir soddisfano un bisogno, se, cioè, sono creature della volontà, occorre che tale volontà abbia la possibilità di formarsi liberamente e sia individuale; non può darsi il caso di volontà sollecitate da terzi; onde, i tentativi messi in atto, di rendere metodica la produzione di hrönir attraverso la sollecitazione delle volontà altrui, ovvero attraverso la sollecitazione della speranza, sono destinati al fallimento: “in una settimana di lavoro con la pala e il piccone, non si riuscì ad esumare altro hrön che una ruota arrugginita, di data posteriore all’esperimento” (anche qui c’è una svista nella traduzione italiana: viene detto “anteriore”, anziché “posteriore”. Il testo spagnolo recita: “de fecha posterior al experimento”).

Se, invece, la volontà è libera ed addirittura è volta a soddisfare, più che un bisogno, una suggestione, l’oggetto prodotto è talmente puro da identificare l’“ur”, che, in tedesco, è il prefisso con significato di originario, schietto, primordiale.

I hrönir sono duplicabili senza limitazioni; essi sono immagini dell’oggetto originale, come riflesse nello specchio.

La duplicazione infinita richiama le infinite immagini di due specchi contrapposti: il labirinto.

La loro duplicazione, però, ubbidisce ad una legge di periodicità e culmina nel dodicesimo termine della serie, da cui ricomincia il ciclo.

Il sistema duodecimale, è quello cui era applicato l’ingegnere Herbert Ashe nell’Hotel di Adrogué prima di morire, ingegnere che, come vedremo, fu uno dei demiurghi dell’Orbis Tertius.

L’undicesimo termine è puro ancor più dell’originale: il numero 11 è quello del volume dell’Enciclopedia di Tlön, ed abbiamo già rilevato come, essendo un numero a struttura speculare, richiami anch’esso l’immagine degli specchi contrapposti e, dunque, il labirinto.

La seconda parte del racconto si chiude con un’immagine poetica: un’antica soglia perdurò finché un mendicante venne a visitarla e pochi uccelli, un cavallo, salvarono le rovine di un anfiteatro.

La sezione finale della seconda parte del racconto, relativa agli oggetti su Tlön, i hrönir, ha una sua autonoma compiutezza, un valore circolare e ricapitolativo, come se si trattasse di un racconto nel racconto.

Dopo l’ampia e dettagliata parentesi descrittiva della cosmovisione tlöniana rigorosamente ispirata al pensiero idealista di Berkeley e di Hume, il narratore, ritornando al motivo degli specchi, che apre la prima parte del racconto (“Debbo la scoperta di Uqbar alla congiunzione di uno specchio e di un’enciclopedia”), intende sottolineare, in vista dell’Orbis Tertius, l’unità fondamentale del percorso evolutivo del pensiero fin qui descritto, la sua circolarità ed organicità.

Infatti, su Uqbar vigeva la forma degenerata dell’idealismo platonico, lo gnosticismo, ed il narratore chiude la seconda parte, sottolineando la continuità, il filo rosso che congiunge evolutivamente quel pensiero al panteismo e all’idealismo continentale del XIX secolo e come questa sintesi agirà potentemente nella determinazione di un clima culturale nel XX secolo, da cui trarrà origine la realtà atroce prefigurata in apertura di racconto.

 

PARTE   III

 

Il poscritto chiarisce il mistero di Tlön. Il casuale ritrovamento di una lettera manoscritta di Gunnar Erfjord consente di apprendere che all’inizio del XVII secolo, forse a Londra, sorse una società segreta, di cui faceva parte anche George Berkeley, con lo scopo d’inventare un paese sulla base di studi ermetici, di principi filantropici e della cabala.

Qui s’inserisce il libro di Andreä citato nella prima parte.

Dopo un intervallo di due secoli, nel 1824, la confraternita risorge in America, a Memphis (Tennessee). Uno degli affiliati parla con l’ascetico milionario Ezra Buckley del progetto.

Questi, sprezzante, propone l’invenzione di un intero pianeta.

Buckley nega Dio, ma vuole dimostrare al Dio inesistente che gli uomini sono capaci di concepire un mondo. Muore avvelenato nel 1828.

Nel 1914 (data d’inizio della prima guerra mondiale) viene licenziata l’opera, che rimane segreta: essa reca la revisione di un mondo illusorio e si chiama, provvisoriamente, Orbis Tertius.

A cominciare dal 1942, Borges narratore è testimone di alcuni fatti premonitori.

Il ritrovamento di una bussola con l’ago turchino e le lettere del quadrante in uno degli alfabeti di Tlön e quello di un cono metallico di piccolo formato e di un materiale pesantissimo, che in certe regioni di Tlön costituisce immagine della divinità.

Nel 1944, vengono rinvenuti i quaranta volumi della prima Encyclopaedia di Tlön, probabilmente perché i direttori stessi dell’Orbis tertius l’hanno consentito.

Sono questi alcuni fatti che testimoniano la graduale penetrazione di Tlön sulla Terra.

Dieci anni prima (1934), una qualunque simmetria con apparenza di ordine – il materialismo dialettico, l’antisemitismo, il nazismo – aveva mandato in estasi la gente.

Tlön è un labirinto, ma è un labirinto ordito da uomini e da essi decifrabile. Il contatto con Tlön ha disintegrato questo mondo. L’umanità dimentica che il suo rigore è di scacchisti, non di angeli.

La contaminazione è crescente, la lingua, la storia, la numismatica, l’archeologia sono già state sostituite da quelle di Tlön. Entro cento anni spariranno l’inglese, il francese e il semplice spagnolo: il mondo sarà Tlön.

Dinanzi a questa rivelazione della fine (apocalisse), Borges chiude il racconto, come di consueto, con una sorpresa di profondo significato.

 

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S’è già rilevato come il poscritto del 1947, in verità, sia stato pubblicato nel 1940.

Borges, dunque, immagina il futuro con una lungimiranza, che denota l’acuta sensibilizzazione dell’intellettuale ai temi storici drammatici nel cui contesto sta vivendo (e scrivendo).

A giugno del 1940, le truppe tedesche entrano a Parigi. L’argomento ci occuperà più avanti.

Nel marzo del 1941, Borges racconta, fu svelato il mistero di Tlön.

Venne, infatti, rinvenuta una lettera manoscritta di Gunnar Erfjord, che si trovava dentro un libro di Hinton, che era appartenuto all’ingegnere Herbert Hashe ed il cui testo confermò le ipotesi di Martínez Estrada.

Nelle “Conversazioni con Richard Burgin” (Palazzi, 1971), Borges, parlando di Tlön, afferma, tra l’altro: “Sì, è una specie di scherzo il nostro di introdurre nello stesso racconto personaggi immaginari accanto a personaggi reali. Se, per esempio, cito un libro apocrifo, la citazione seguente deve riferirsi a un libro reale, o anche a un libro immaginario ma di uno scrittore realmente esistito.”

Gunnar Erfjord è personaggio inventato, già citato come Erik Erfjord in “Tre versioni di Giuda”,  (“Finzioni”, 1944),  e, come Erfjord, ne “I Teologi”, (“L’Aleph”, 1949).

Charles Howard Hinton (1853-1907) fu matematico, teosofo e scrittore di fantascienza e si occupò, tra l’altro, della quarta dimensione.

L’ingegnere Herbert Hashe, come s’è già visto, è anch’egli immaginario.

Ezequiel Martínez Estrada (1895-1964) fu scrittore, poeta e saggista argentino.

Si realizza, in tal modo, l’alternanza del fantastico al reale, che preannuncia l’intrusione di Tlön, mondo fantastico, nella Terra, mondo reale, cui assisteremo di qui a breve.

La lettera chiariva che Tlön era stato, in primo momento, inventato come paese, da una società segreta e benevola che si riuniva la notte, all’inizio del secolo XVII, a Londra o a Lucerna.

Di essa facevano parte George Dalgarno e poi George Berkeley.

Il programma iniziale contemplava gli studi ermetici, la filantropia e la cabala.

A questo periodo risale il libro di Andreä, che, come s’è visto, si riferiva ad Uqbar.

George Dalgarno (1626-1687) fu scrittore e pedagogista scozzese; si occupò di questioni del linguaggio e nel 1661 pubblicò un’opera originale, l’ “Ars signorum” (Arte dei segni), nella quale presentava un linguaggio universale completamente elaborato e costruito su principi filosofici.

Nel 1824, la confraternita risorge in America, a Memphis (Tennessee).

Quivi, un affiliato illustra il progetto all’asceta milionario nordamericano, Ezra Buckley.

Questi, in luogo del progetto di invenzione di un paese, che gli sembrava troppo misero per la mentalità americana, propone l’invenzione di un intero pianeta e l’osservanza del segreto sulla gigantesca impresa.

Suggerisce, altresì, a fronte di ingenti sue donazioni, la redazione di un’enciclopedia metodica sul pianeta illusorio, a condizione che non si patteggi con l’impostore Gesù Cristo.

Ezra Buckley era ateo, ma voleva dimostrare al Dio inesistente che gli uomini sono capaci di concepire un mondo.

Traspare con chiara evidenza la superbia e l’onnipotenza, espressioni tipiche dello gnostico iniziato.

Buckley è il simbolo del «signore», in contrapposizione al «servo», nella dialettica della Storia di Hegel, e del «superuomo», dell’aristocratico, nel pensiero di Nietzsche.

Borges, con una nota al testo, ci informa che egli è difensore dello schiavismo.

In ciò, il simbolo è più nitzschiano: “La schiavitù è visibile ovunque, sebbene non voglia confessarlo a sé stessa; dobbiamo aspirare a essere dappertutto, a conoscere tutte le sue condizioni, a difendere nel modo migliore tutte le sue opinioni; solo così possiamo dominarla ed utilizzarla.  ….  La schiavitù non deve essere abolita, essa è necessaria. Dobbiamo solo voler fare in modo che nascano sempre di nuovo quelli per i quali gli altri lavorano, affinché questa massa immane di energie politico-commerciali non sia consumata invano” (F. Nietzsche, Frammenti postumi 1881-1882, in Nietzsche, Opere, Milano, 1977, 11, pp. 412-413).

Ezra Buckley muore, forse l’unico personaggio nei racconti di Borges, avvelenato, nel 1928: metafora del veleno morale da cui era intossicato.

Ezra è il nome del sacerdote scriba giudeo cui si attribuisce l’Apocalisse non canonico, denominato Esdrae Quartus, nel quale, in ricompensa della miseria attuale in cui versava il popolo d’Israele esiliato in Babilonia ed in preda ai pagani (398 a.C.), viene profetizzato un mondo di imminente felicità e di gravi pene per i malvagi.

Appare in modo chiaro il parallelismo con l’utopia tlöniana.

Nel 1914, anno dell’attentato di Sarajevo e d’inizio della prima guerra mondiale, la confraternita rimette ai suoi collaboratori, divenuti adesso trecento, l’ultimo volume della First Encyclopaedia di Tlön.

L’opera, in quaranta volumi, la più vasta mai realizzata dagli uomini, un Opus Majus del Genere umano, rimane segreta.

Essa dovrà servire di base ad un’altra, più minuziosa, redatta in una delle lingue di Tlön.

Intanto, questa Enciclopedia reca la revisione di un mondo illusorio, provvisoriamente denominato Orbis Tertius.

Vedremo come, in verità, rechi solo per sommari cenni anticipatori tale revisione.

Nel racconto, vi sono diversi riferimenti all’Orbis Tertius, talvolta contraddittori, sempre poco chiari, per cui non è facile coglierne subito il significato.

Il titolo del racconto “Tlön, Uqbar, Orbis Tertius” segue un ordine sequenziale che, successivamente, nel corso del racconto, risulterà modificato.

Infatti, come s’è già osservato, nella seconda parte, Borges narratore, avendo ricevuto l’undicesimo volume della First Encyclopaedia di Tlön, afferma: “… provai una vertigine stupita e leggera, che non descriverò, perché questa non è la storia delle mie emozioni ma la storia di Uqbar, di Tlön e dell’Orbis Tertius.”

Questa nuova sequenza risulta più coerente con l’ordine delle “scoperte”: infatti, il racconto si apre con la “scoperta” di Uqbar, mentre Tlön forma oggetto della seconda parte e, comunque, risulta essere, almeno in un primo momento, una regione immaginaria di Uqbar; è, altresì, coerente anche con l’ordine cronologico delle filosofie sottese alle rispettive visioni del mondo: in Uqbar, lo gnosticismo (II secolo d. C.), in Tlön, l’idealismo inglese del XVIII secolo.

Inoltre, entrambi i nomi indicano, da un lato, luoghi geografici (regioni immaginarie della terra o addirittura pianeti fittizi), dall’altro, cosmovisioni filosofiche, cioè sistemi di pensiero totalizzanti, che presiedono all’interpretazione della realtà (gnosticismo ed idealismo).

Non v’è motivo, dunque, di dubitare che anche l’Orbis Tertius indichi sia un luogo geografico, sia un sistema di pensiero, una visione del mondo.

Oltre alle due citazioni esaminate (Il titolo del racconto e la frase su riferita testualmente), vi sono altre tre citazioni dell’Orbis Tertius.

Una, ancora nella seconda parte del racconto, come sottotitolo della First Encyclopaedia di Tlön (un timbro ovale di colore turchino); le altre due, nella terza parte, il poscritto, ed entrambe riferite all’Enciclopedia. In tutto, cinque citazioni.

Le prime due (il titolo e la frase citata) utilizzano il carattere tipografico tondo del racconto; le rimanenti tre, utilizzano il carattere corsivo.

E’ lecito dunque dedurre che quando Orbis Tertius è citato nell’accezione di luogo geografico, il carattere tipografico utilizzato è quello tondo ordinario.

Quando, invece, è citato nell’accezione di Enciclopedia, cioè di sistema di pensiero, di visione del mondo, il carattere utilizzato è il corsivo.

La distinzione sostanziale, che si riflette persino nel carattere tipografico utilizzato per scriverne il nome, segnala, comunque, che Orbis Tertius, alla stessa stregua degli altri due nomi (Uqbar e Tlön), indica sia un luogo geografico (vedremo quale), sia un’Enciclopedia, cioè un sistema di pensiero, una visione del mondo.

La collocazione come terzo nella serie dei nomi e l’uso dell’ordinale Tertius ci consentono, infine, di concludere che, nella sequenza logica e cronologica, esso, in entrambi i suoi significati, costituisca un termine di approdo, quello finale.

Borges narratore riceve casualmente l’undicesimo volume della First Encyclopaedia di Tlön, nell’Hotel de Adrogué nel mese di settembre del 1937; il libro è scritto in inglese e riporta sulla prima pagina e su una velina un timbro ovale turchino, con l’iscrizione Orbis Tertius.

Dal poscritto, si apprende che la First Encyclopaedia di Tlön, in quaranta volumi, fu ultimata nell’anno 1914 e rimase segreta; si apprende, altresì, che il «volume undicesimo» ricevuto da Herbert Hashe pochi giorni prima della sua morte (settembre 1937) e poi fortunosamente pervenuto nelle mani di Borges narratore ad Adrogué, proviene da quella edizione del 1914. Infatti, Hashe lo ricevette, così riferisce il racconto, in quanto affiliato alla confraternita redattrice ed egli stesso “demiurgo” dell’opera.

Borges definisce così, in questo punto del racconto, l’Orbis Tertius:

“Questa revisione di un mondo illusorio si chiama provvisoriamente Orbis Tertius”.

Dunque, Orbis Tertius è qui chiaramente riferito ad un’Enciclopedia, la First Encyclopaedia di Tlön.

Successivamente, nel 1944, un reporter del quotidiano «The American» scova in una biblioteca di Memphis i quaranta volumi della First Encyclopaedia di Tlön, probabilmente perché la scoperta è stata consentita dai direttori “dell’ancora nebuloso Orbis Tertius.”

L’affermazione è rilevante sotto il profilo ermeneutico.

Infatti, viene qui chiarito che nella First Encyclopaedia di Tlön, l’Orbis Tertius è ancora in nuce, è un progetto appena abbozzato, provvisorio ed ancora nebuloso, che fa riferimento piuttosto ad un punto di arrivo non ancora raggiunto e che prelude, dunque, “a una altr’opera più minuziosa, redatta non più in inglese, ma in una delle lingue di Tlön.”

Si tratterà, ci informa il narratore, della seconda Encyclopaedia di Tlön, in cento volumi, che, prevedibilmente, saranno rinvenuti di qui a circa cento anni: “I lavori continuano. Se le nostre previsioni non errano, tra un centinaio d’anni qualcuno scoprirà i cento volumi della seconda Encyclopaedia di Tlön.”

Dunque, la First Encyclopaedia di Tlön, sotto il profilo della prefigurazione dell’Orbis Tertius, ha carattere profetico, alla stessa stregua dell’opera di Johannes Valentinus Andreä, che descriveva la comunità immaginaria dei Rosacroce, che altri avrebbe, poi, fondato realmente sull’esempio di ciò che colui aveva immaginato.

Il carattere profetico della First Encyclopaedia di Tlön assume peculiare valore, che emergerà più compiutamente nella parte relativa al significato del racconto.

Il testo così prosegue: “Nell’esemplare di Memphis, alcuni passi incredibili dell’«undicesimo volume» …. Sono stati eliminati o attenuati”. Si ripete qui il gioco di prestigio che si verificò in apertura di racconto con il XLVI volume dell’Anglo-American Cyclopaedia; ivi, solo l’«esemplare» posseduto da Bioy Casares era di 921 pagine anziché di 917 e conteneva le 4 pagine riferite ad Uqbar.

Così, qui i quaranta volumi scovati in una biblioteca di Memphis, perché così voluto dai direttori dell’Orbis Tertius, sono certamente quelli editi nel 1914 (non ci sono altre edizioni dell’opera), ma contengono un «esemplare» dell’«undicesimo volume» un po’ modificato rispetto a quello sfogliato da Borges narratore ad Adrogué e di cui egli ci ha parlato nella seconda parte del racconto.

Sulla base dei dati esaminati, è possibile così concludere in merito al significato dell’Orbis Tertius: la First Encyclopaedia di Tlön, edita nel 1914, reca in modo compiuto la parte relativa a Tlön, sulla cui dettagliata descrizione, infatti, Borges narratore ha indugiato nella seconda parte del racconto; invece, contiene solo come progetto (ancora nebuloso) alcuni primi indizi, alcuni segni premonitori di ciò che sarà la Terra (l’Orbis Tertius, come luogo geografico e fisico) allorché si sarà compiutamente verificato il contatto con Tlön; nonché di come risulterà infine ivi modificato il sistema di pensiero (l’Orbis Tertius come Enciclopedia).

In definitiva, in modo ancora incompiuto, la First Encyclopaedia di Tlön prefigura come si modificherà la visione del mondo, che è ideale ed immateriale su Tlön, e materiale e reale sulla Terra, con il contatto stesso.

Il progetto embrionale dell’Orbis Tertius, contenuto nella prima Enciclopedia, lascia presagire che dall’incontro dell’immaginario, del fantastico (Tlön), con il materiale, il reale (Terra) nascerà un “terzo mondo”, con caratteristiche e proprietà intermedie, che sarà più minuziosamente descritto nell’opera in corso di redazione (“I lavori continuano”) in una delle lingue di Tlön  e che costituirà, in capo a cento anni, la seconda Encyclopaedia di Tlön, in cento volumi.

Nel 1942 accadono fatti, a carattere premonitorio,  di cui il narratore è diretto ed attento testimone (“Ricordo con singolare nettezza uno dei primi” e “Della seconda, per un caso che m’inquieta, fui ancora testimone io stesso.”).

Si verifica l’intrusione nel nostro mondo (la Terra) di oggetti materiali provenienti da Tlön.

Il racconto alterna, come di consueto, elementi fantastici ad altri reali (als ob … id est).

Nel primo episodio, al riferimento ad un luogo realisticamente descritto in cui accade il fatto (un appartamento di via Laprida), si alterna  la citazione di un personaggio immaginario (la principessa de Faucigny Lucinge, che s’incontra anche nel racconto “L’immortale”, in “L’Aleph”, 1949).

Nel secondo episodio, che accadde alcuni mesi dopo, viene nuovamente descritto con dettaglio il luogo dell’avvenimento e le circostanze di fatto che lo determinarono.

Invece, il protagonista è un ragazzo sconosciuto, che «veniva dalla frontiera».

Gli oggetti materiali, che costituiscono l’indizio dell’intrusione del mondo fantastico di Tlön nel nostro mondo reale, sono: una bussola dall’ago turchino (che ricorda il colore del timbro ovale sull’Encyclopaedia di Tlön con l’iscrizione Orbis Tertius), dalla cassa di metallo concava e con le lettere del quadrante in uno degli alfabeti di Tlön ed un piccolo cono metallico, di un metallo che non è di questo mondo, pesantissimo, tanto da essere sollevato con gran fatica da un uomo.

La circostanza che gli oggetti intrusi siano corporei e materiali, sebbene provenienti da un mondo idealista, fantastico ed immateriale, è desumibile dai seguenti elementi.

Da un lato, il riferimento espresso alla natura dei materiali metallici che li costituiscono e alle proprietà intrinseche di essi (ad esempio, il peso); dall’altro, come si è già rilevato, la nota al testo riferita a “la disseminazione di oggetti di Tlön nei diversi paesi”, che afferma: “Resta da risolvere, naturalmente, il problema della materia di alcuni di questi oggetti.”

Ma, anche il motivo di tali intrusioni di corpi materiali è chiarito.

Infatti, il narratore, come abbiamo accennato, allorché riferisce delle lievi modificazioni registrate nell’esemplare dell’«undicesimo volume» dell’Encyclopaedia di Tlön rinvenuto a Memphis, ne indica la ragione: “è ragionevole pensare che queste correzioni corrispondano all’intenzione di presentare un mondo non troppo incompatibile con il mondo reale.”

Queste stesse motivazioni, il narratore le estende anche all’intrusione degli oggetti materiali: “La disseminazione di oggetti di Tlön nei diversi paesi farebbe parte dello stesso piano.”

In altri termini, i direttori dell’ancora nebuloso Orbis Tertius, affiliati alla confraternita e demiurghi dell’Encyclopedia di Tlön, nel concepire il progetto di un mondo fantastico capace di modificare il mondo reale, pervenendo ad un nuovo mondo – l’Orbis Tertius, obiettivo finale – , per attenuare ogni dubbio sul successo della loro impresa, attuano strategie idonee ad accrescerne la realizzabilità: ad esempio, rendendo non troppo incompatibile il mondo da essi concepito, con il mondo reale, così da evitarne il rigetto.

A questo punto, si verifica un’accelerazione, gli eventi precipitano.

Il narratore esce di scena, ponendo termine alla parte personale della sua narrazione.

I fatti, da ora in poi appartengono al “concavo ricordo comune” e sono drammatici.

Il ritrovamento dei quaranta volumi dell’Encyclopaedia di Tlön, cui la stampa nazionale ed internazionale ha dato enorme risalto, la disseminazione degli oggetti di Tlön, la diffusione di manuali, antologie, riassunti dell’Encyclopaedia stessa, e, soprattutto, la circostanza che, evidentemente, la realtà anelava di cedere, hanno determinato l’assuefazione della Terra al mondo di Tlön e la soccombenza ad esso.

Qui, Borges narratore inserisce una riflessione amara e di grande importanza:

“Dieci anni fa, bastava una qualunque simmetria con apparenza di ordine – il materialismo dialettico, l’antisemitismo, il nazismo – per mandare in estasi la gente. Come allora non sottomettersi a Tlön, alla vasta e minuziosa evidenza di un pianeta ordinato? Inutile rispondere che anche la realtà è ordinata. Sarà magari ordinata, ma secondo leggi divine – traduco: inumane – che non finiamo mai di scoprire. Tlön sarà un labirinto, ma è un labirinto ordito da uomini, destinato a esser decifrato dagli uomini.”

Il contatto con Tlön ha disintegrato questo mondo. “Incantata dal suo rigore, l’umanità dimentica che si tratta d’un rigore di scacchisti, non di angeli”.

Tutto sta cambiando, la lingua, la storia, l’archeologia: una sparsa dinastia di solitari ha cambiato la faccia del mondo.

Borges chiude la narrazione con una sorpresa densa di significato, che ci occuperà nella parte dedicata al significato del racconto.

Con il ritrovamento dei cento volumi della seconda Encyclopaedia di Tlön,  tra un centinaio d’anni, spariranno dal pianeta l’inglese e il francese e il semplice spagnolo. “Il mondo sarà Tlön”.

Egli, tuttavia, sembra dare le spalle a tali eventi (“Io non me ne curo”), rimanendo intento ad una indecisa traduzione quevediana, cioè nello stile di Quevedo, dell’Urn Burial di Thomas Browne.

L’aggettivo “quevediana” va inteso nello stile di Quevedo per due ragioni: la prima, che Francisco de Quevedo è morto nel 1645, dunque prima della pubblicazione dell’Urn Burial (1658), onde non può trattarsi di una sua traduzione; la seconda, che l’Urn Burial è scritto in uno stile barocco e ricco di espressioni in latino, stile simile a quello di Quevedo.

Basti qui, intanto, rilevare, con riserva d’approfondimento nella parte relativa al significato del racconto, che l’Urn Burial è un’opera sulla memoria, sulla vanità dell’uomo di vincere l’oblio e di raggiungere, così, una qualche eternità post mortem.

Non sfuggirà lo stridente contrasto con un pensiero, quello tlöniano, che, negando la storia, l’archeologia e l’identità personale, cioè la memoria del passato, che diviene modificabile con meri atti del pensiero, sradica l’umanità e la priva, insieme con la memoria, dell’esperienza individuale e collettiva.

“Si sa che l’identità personale risiede nella memoria, e che la scomparsa di quella facoltà comporta l’idiozia. Si può pensare lo stesso dell’universo. Senza una eternità, senza uno specchio delicato e segreto di ciò che è passato per le anime, la storia universale è tempo perduto, e con essa la nostra storia personale – il che scomodamente fa di noi altrettanti fantasmi” (Borges, “Storia dell’Eternità”, 1936).

 

  1. Significato del racconto

 

Il racconto è l’allegoria della modernità, periodo storico e culturale caratterizzato da una crescente secolarizzazione e dallo sforzo prometeico dell’uomo di creare un nuovo mondo (Orbis novus).

Esso presuppone e sottende, da un lato, il rifiuto, da parte dell’uomo, dell’attuale mondo reale e delle leggi divine che lo regolano, dall’altro, la fiducia illimitata e presuntuosa (ὓβρις) nei propri mezzi e nelle proprie capacità razionali.

Tali elementi costituiscono tratti tipici della mentalità gnostica, che concepisce il mondo in cui l’uomo è stato “gettato” e nel quale vive da prigioniero e da straniero, come creazione di un dio incompetente e malvagio (l’Arconte demiurgo), che impone leggi incomprensibili ed ingiuste, mondo contro il quale, grazie alla conoscenza iniziatica (gnosi), l’uomo vuole ribellarsi, con atto rivoluzionario, per abbatterlo, ricostruendo sulle sue rovine – egli, fattosi demiurgo – un nuovo ordine mondiale, basato su leggi da lui stesso date.

Questi tratti della mentalità gnostica sopravvivono, risultando anzi rafforzati, prima nell’illuminismo e poi nell’idealismo, soprattutto in quello tedesco del XIX secolo, il cui massimo esponente è Hegel.

Questi è il convitato di pietra del racconto, con la sua suddivisione della storia in tre periodi, di cui l’Orbis Tertius costituisce l’ultimo, l’Età dello Spirito.

Il richiamo alla sua filosofia è nel racconto, sia diretto, sia indiretto.

Quando Borges fa riferimento alla filosofia di Tlön, la qualifica come la filosofia della “tesi e dell’antitesi”: la dialettica hegeliana.

Il racconto è diviso in tre parti, in accordo con la triade dialettica che descrive il reale nel suo divenire storico: l’Orbis Tertius, rappresentandone l’aspetto speculativo sintetico, assume il significato di “realtà rivelata dal discorso”.

Infine, v’è anche un riferimento indiretto (a contrario), operato mediante quello all’antagonista e detrattore di Hegel: Schopenhauer, “l’appassionato e lucido” Schopenhauer, che forse decifrò l’Universo (“Altra poesia dei doni”, in “L’altro, lo stesso”, 1964).

In “Nuova confutazione del Tempo” (1952) Borges prenderà le distanze dall’idealismo inglese del XVIII secolo, quello di Berkeley e di Hume, chiudendo il saggio con la famosa espressione “And yet, and yet …”, già citata, con la quale contrappone a quell’idealismo negatore dell’identità personale, un realismo che, invece, l’afferma.

Analogamente, in questo racconto, egli prende posizione, negando verità e validità ai valori espressi dal pensiero gnostico e dall’idealismo tedesco del XIX secolo, che ne fu fortemente impregnato, e da cui scaturirono, sul piano storico, le realtà atroci del nazifascismo, della seconda guerra mondiale, dell’antisemitismo, della rivoluzione bolscevica e del comunismo.

Ciò emerge dalla ferma, quanto sorprendente conclusione: “Yo no hago caso” (Io non me ne curo), con la quale egli, con decisa cesura e quevediano stoicismo, riafferma i valori tradizionali della storia, dell’individualità e della memoria, attraverso il riferimento ad un’opera, l’Urn Burial di Thomas Browne, che di essi costituisce la mirabile epitome.

Esaminiamone il dettaglio.

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Vi sono, lungo lo svolgimento della narrazione, elementi sintomatici, spesso segreti, talvolta contraddittori, rintracciabili solo a posteriori, che orientano verso la sua interpretazione.

Intanto, va ribadito come l’ordine sequenziale delle parole nel titolo (Tlön, Uqbar, Orbis Tertius), seppure rispecchi la gerarchia della rilevanza dei tre luoghi, che rappresentano anche tre visioni del mondo, tuttavia, non s’accordi con la concatenazione logica, né cronologica, dello sviluppo del pensiero lungo il racconto stesso e non consentirebbe, dunque, di pervenire all’intelligenza della sua unità ed organicità; in altri termini, non consentirebbe di cogliere la realtà atroce o banale che ne identifica il significato finale.

Il narratore, ad un certo punto, corregge quell’ordine, affermando che questa è la storia di Uqbar, di Tlön e dell’Orbis Tertius, in coerenza con l’effettiva sequenza espositiva del racconto.

Nella prima parte, relativa ad Uqbar, egli aveva richiamato in modo espresso il pensiero gnostico, anzi, ne aveva sottolineato alcuni tratti, che, dunque, assumono rilevanza.

Si fa riferimento alla frase dello gnostico: “gli specchi e la copula sono abominevoli, perché moltiplicano il numero degli uomini”; giudizio su cui il narratore insiste, integrandolo:

“Per uno di questi gnostici l’universo visibile è un’illusione, o – più precisamente – sofisma; gli specchi e la paternità sono abominevoli perché lo moltiplicano e lo divulgano.”

Questi temi del pensiero gnostico, come s’è detto, rinviano alla concezione del mondo come prigione, come male, creazione di un dio incompetente (il demiurgo-arconte, il Dio della Bibbia), che ha utilizzato un materiale inadatto (la materia di Tenebra) e che ha dato all’uomo e al mondo leggi  incomprensibili, non condivise ed anzi aborrite.

Contro di esse, l’iniziato – che, avendo preso coscienza della scintilla di Luce interiore (pneuma o Spirito divino), possiede la conoscenza esoterica che lo rende superiore allo stesso Dio-arconte – si ribella e vuole abolirle, creando, egli, da dio, un nuovo mondo, secondo leggi umane, anch’esse sì labirintiche, ma decifrabili dagli uomini.

Questi motivi manifestano una fiducia illimitata da parte dell’uomo gnostico in sé stesso, tale, per cui egli, superbamente, ordisce il progetto rivoluzionario di abbattere il mondo esistente per edificarne uno nuovo.

E’ il progetto di un’élite di iniziati, che nel racconto Borges-narratore rimette, tramite il richiamo al teologo tedesco Johannes Valentinus Andreä, alla comunità dei Rosacroce e, comunque, ad “una società segreta e benevola (che contò tra i suoi affiliati Dalgarno, e poi George Berkeley) (che) sorse per inventare un paese.”

Così, lo stesso Borges presuppone ed afferma la continuità di quei temi del pensiero gnostico, storicamente incardinati nei secoli II-III d. C., facendoli traslare al XVII secolo.

In effetti, esiste un filo conduttore nell’evoluzione storica del pensiero, che consente di rintracciare elementi importanti, tra cui quelli su riferiti, che identificano, come detto, una mentalità gnostica perdurante, che informa di sé più sistemi di pensiero fino alla modernità.

La fede nella capacità autonoma della ragione di spiegare l’universo è propria dell’Illuminismo.

D’altronde, se si pone mente alla circostanza che l’”illuminazione” è il comune denominatore della Gnosi e dell’Illuminismo, si comprende agevolmente quanta affinità colleghi le due concezioni filosofiche.

Entrambe sono impregnate dalla superba certezza che l’uomo possegga in sé la capacità autonoma e razionale per redimersi dallo stato di minorità e di passività in cui versa.

Nel caso dello Gnosticismo, la minorità è effetto dell’errore infradivino della caduta delle particelle di Luce dal Pléroma nella materia di Tenebra di cui l’uomo è fatto; si tratta, dunque, di una condizione subita dall’esterno.

Nel caso dell’Illuminismo, invece, lo stato di minorità, come dice Kant, è da imputare all’uomo stesso, umiliato perché subisce poteri (ad es. quello ecclesiastico) che non riconosce legittimi.

L’illuminismo considera la religione una superstizione, un inganno in cui l’uomo vuol cadere per viltà e debolezza.

Esso ritiene che l’uomo possegga in sé le risorse per autorealizzarsi, cioè per affrancarsi dalla condizione di umiliazione in cui versa, senza bisogno di alcun aiuto esterno, come ad esempio, la Grazia dei Cristiani.

La risorsa dell’uomo è la ragione, il giudice dinanzi al quale devono giustificarsi le istanze di verità delle religioni e, tra esse, di quella cristiana, e, in genere, delle leggi.

La concezione illuminista stabilisce, dunque, il primato del pensiero filosofico sulla fede e sui valori assoluti.

Emergono evidenti elementi di continuità e di affinità tra i due sistemi di pensiero, gnosticismo e illuminismo, caratterizzati, entrambi, da un titanismo prometeico delirante (ὓβρις),  che pone l’uomo al di sopra di tutto, anche di Dio: “Buckley nega Dio, ma vuole dimostrare al Dio inesistente che gli uomini mortali sono capaci di concepire un mondo.”

Lo gnosticismo, inoltre, come s’è visto, rifiuta la materia, che è materia di Tenebra, utilizzata dal demiurgo per creare il mondo e l’uomo ed imprigionarvi la scintilla di Luce.

La materia è simbolo del limite, dell’ostacolo, della prigione in cui è trattenuta la scintilla di Luce, consustanziale al Dio di Luce, il Dio trascendente e sconosciuto.

Il pensiero gnostico nega l’incarnazione di Gesù Cristo, non potendo ammettere l’unione dell’Eone celeste con la materia impura, che rappresenta il male.

Solo l’uomo pneumatico, colui, cioè, che custodisce la scintilla di Luce (spirito o pneuma) potrà liberare lo spirito divino dalla materia che lo imprigiona e fargli raggiungere, attraverso la conoscenza esoterica (gnosi) della provenienza e della destinazione, il Pléroma, la pienezza, facendolo ricongiungere al Dio di Luce.

Si scorge qui l’analogia con la struttura trinitaria del movimento dialettico hegeliano.

La differenza tra i due pensieri risiede nella trascendenza: infatti, il processo dialettico (Pléroma (tesi) – particella di Luce negata, perché mescolata e nascosta dentro la materia di Tenebra (antitesi) – Luce che ritorna alla pienezza del Pléroma (sintesi)) nello gnosticismo ha direzione verticale (trascendenza), mentre nell’idealismo hegeliano si svolge tutto sul piano della realtà e della storia, cioè orizzontalmente (immanentismo).

La dialettica, in Hegel, è elemento costitutivo della realtà; essa conferisce dinamismo alla capacità evolutiva del reale. Ma è anche razionalità, è scienza.

La Ragione, infatti, è capace di realizzare la sintesi tra due concetti antinomici (tesi ed antitesi), evidenziando gli elementi che consentono di pervenire, mediante la contraddizione, alla loro conciliazione, superamento ed elevazione a un grado superiore di conoscenza della realtà, cioè di verità (sintesi).

La realtà è, dunque, ragione realizzata: «ciò che è razionale è reale e ciò che è reale è razionale».

Il principio dialettico consente il superamento di ogni dualismo, attraverso la conciliazione degli opposti nella loro sintesi e conduce, così, ad un’assoluta immanenza: Dio/Mondo, Infinito/finito o Universale/individuale, sono sublimati in un’unica realtà concreta, il Tutto, la Realtà rivelata dalla Ragione.

Ciò ha un’immediata implicazione: non v’è distinzione tra Sapere Assoluto (Filosofia) e Realtà Universale Assoluta (Storia).

La storia è lo svolgimento della ragione (ciò che è reale è razionale), è l’Idea che diviene Fatto.

E’ l’idealismo gnostico hegeliano, secondo cui l’uomo è detentore del Sapere assoluto ed eterno, del Sapere che è proprio di Dio: la sua Filosofia, da amore per il sapere, è divenuta Sapere assoluto.

Così, la filosofia hegeliana apre le porte all’utopia moderna: l’uomo nuovo, congedato Dio, sostituisce alla Teologia, l’Antropologia.

Si tratta di una religione laica, di una fede nella capacità tecnico-scientifica dell’uomo stesso di modificare il mondo, attraverso la negazione dei valori vigenti.

Nel racconto, si tratta di Tlön (sistema di pensiero) che diviene l’Orbis Tertius al contatto con la Terra, agendo e modificando il mondo esistente.

Hegel, coerentemente con il suo schema dialettico triadico (unità – scissione – riconciliazione) ha suddiviso il processo storico in tre periodi, con ciò riprendendo la tripartizione di Gioacchino da Fiore (1145 – 1202) e la sua teoria delle tre età del mondo.

L’immanenza dello Spirito Assoluto nella Storia e l’evoluzione di questa nelle tre età realizzano l’ideale utopico ed escatologico, di una nuova religiosità, che, trasferendo la fede da Dio alla capacità razionale dell’uomo, ritenuta illimitata, gli affida il compito di realizzare, attraverso il processo storico, la liberazione e la redenzione di sé, in un mondo futuro, nella terza età del mondo, l’età dello Spirito, l’Orbis Tertius.

E’ questo il nuovo paradigma gnostico panteista moderno, promosso dall’idealismo tedesco del XIX secolo, che prende le mosse dalla filosofia dello Spirito di Hegel: una mitologia dell’Io.

Il clima di guerra e di catastrofe che caratterizza gli anni trenta e quaranta del XX secolo, preceduto dall’altro conflitto mondiale del 1914-1018, incidono in modo importante sul pensiero di quel periodo e sulla sensibilità dell’élite culturale e di Borges.

Il tema della crisi della civiltà spinge l’uomo verso posizioni estremistiche, che giungono persino a negare la filosofia della riconciliazione tra ragione e realtà di Hegel, assumendo toni apocalittici, caratterizzati dalla dissociazione profonda tra i due concetti.

Sintomo di questa frattura, che denota la crisi della razionalità della Storia, è l’idea di Rivoluzione di Marx-Engels per l’instaurazione del materialismo storico. “La rivoluzione non è necessaria soltanto perché la classe dominante non può essere abbattuta in nessun’altra maniera, ma anche perché la classe che l’abbatte può riuscire solo in una rivoluzione a levarsi di dosso tutto il vecchio sudiciume e a diventare capace di fondare su basi nuove la società.” (K. Marx – F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma, 1972, pag. 29).

Anche qui si registrano almeno due elementi propri dello gnosticismo-illuminismo-idealismo tlönista: da un lato, la prospettiva apocalittica del mondo attuale; dall’altro, la conoscenza certa e salvifica (gnosi) del processo di liberazione reale, mediante il metodo pratico-attivo (rivoluzione del proletariato).

Speculare, nel senso borgesiano del termine, cioè come immagine invertita, è la gnosi nitzschiana.

Qui il superuomo è l’aristocratico, l’uomo forte e sprezzante che non conosce la pietà, oppure l’uomo elitario per cultura e formazione (l’artista, il filosofo, lo scienziato); come s’è visto, nel racconto è Ezra Buckley, il libero pensatore nichilista e schiavista.

Il cristianesimo, che predica umiltà, penitenza e redenzione, la religione dei deboli, dei poveri e dei diseredati, è una iattura storica, da avversare con ogni mezzo.

Il potere deve appartenere a pochi, ai più forti e migliori. Anche Nietzsche, come Hegel, ammirava Napoleone.

Il comando dell’aristocrazia teorizzato da Nietzsche, che Zarathustra profetizzava, trovò pratica attuazione nei partiti fascista e nazista, con le conseguenze storiche atroci, che, come Borges afferma, sono “nel concavo ricordo comune”.

Tutte le profezie di un nuovo mondo salvifico naufragarono storicamente, in modo inappellabile e drammatico, in un bagno di sangue.

Ma Borges, nel 1940, pur respirandone l’atmosfera, non poteva ancora conoscerne gli esiti storici.

La sua è una visione profetica: “Il mondo sarà Tlön” (lo specchio e l’enciclopedia sono abominevoli, da abominari: recano un cattivo presagio).

Dunque, Tlön è un’utopia gnostico-illuminista, che, se applicata e tradotta nel fatto storico concreto, ha dato luogo ad una realtà atroce; in quanto pensiero, filosofia, sarebbe solo “la tremenda congettura/ di Schopenhauer e di Berkeley/ che dichiara che il mondo/ è un’attività della mente,/ un sogno delle anime,/ senza base né proposito, né volume.” (“Alba”, in “Fervore di Buenos Aires”, 1923).

Dinanzi alla disintegrazione di questo mondo a causa del contatto con Tlön, Borges, che pure è toccato nei sentimenti più profondi e personali (“l’insegnamento della sua storia armoniosa ha già obliterato quella che presiedette alla mia infanzia” e, ancora, “Allora spariranno dal pianeta l’inglese … e il semplice spagnolo”, le lingue che egli aveva appreso dalla nonna materna e dalla madre), assume un atteggiamento distaccato e stoico, rivelando un “eroismo paradossale”, analogo a quello che, in circostanza storicamente simile,  dimostrò lo stesso Thomas Browne: “Nel 1642 la guerra civile piantò il suo grido nei cuori. In Browne alimentò l’eroismo paradossale di ignorare l’insolenza bellica, persistendo nell’impegno di pensare, con lo sguardo rivolto a una pura speculazione di bellezza.” (“Sir Thomas Browne”, in “Inquisizioni”, 1923).

Borges, insieme con Bioy Casares,  hanno tradotto il capitolo V dell’Urn Burial, nel 1944; ma, già nel 1923, nel citato saggio di Inquisizioni dedicato a Thomas Browne, Borges aveva incluso la traduzione di un ampio frammento dello stesso capitolo.

Nella traduzione del 1944, essi addirittura inventarono ed interpolarono, una loro originale considerazione, non contenuta nel testo di Thomas Browne, realizzando, in tal modo, una traduzione creativa.

La scelta del testo del primo brano inserito nel saggio di Inquisizioni (1923) e il contenuto del secondo (1944), quello interpolato, consentono di comprendere i valori che Borges intende sottolineare nell’opera di Browne e che contrappone con stoica fermezza al mondo di Tlön e alla sua concretizzazione storica: i regimi totalitari.

La sua traduzione, che, come s’è visto – e come emerge anche da altri confronti tra le traduzioni dei due diversi periodi – è creativa, rappresenta, dunque, una ferma protesta contro la fragilità della memoria umana ed il conseguente oblio, contro la cancellazione della Storia, aspetti, questi, tutti esasperati dalla cultura totalizzante degli idealismi gnostici progenitori dei regimi totalitari.

In altri termini, l’insegnamento che il letterato Borges vuole trasmettere, non solo con la scelta dell’Urn Burial di Thomas Browne, opera che egli giudica bella sotto il profilo estetico e profonda nei suoi contenuti, centrata sul tema della morte, del ricordo, della vanità individuale e della ricompensa stoica che l’uomo s’attende dopo la morte, ma anche con la sua traduzione (in parte innovativa) da una lingua ormai inesistente (l’inglese barocco) ad altra lingua altrettanto desueta (lo spagnolo barocco di Quevedo), consiste nella considerazione che la memoria dell’umanità, la Historia magistra vitae, la cultura, risiedono nei libri, ancor più che nei monumenti funebri, ed è l’attentato alla loro libera ed universale fruibilità (la censura), oltre che l’inibizione della libertà della loro creazione intellettuale (la discriminazione degli autori ebrei e di quelli non filonazisti o non filocomunisti), il più temibile pericolo, capace di spingere l’uomo sul ciglio del baratro del nulla. “Molti fatti sono stati sepolti nel silenzio non registrati, e i più copiosi volumi sono epitomi di ciò che è accaduto.” (dall’interpolazione inserita nella traduzione del V Capitolo dell’Urn Burial, a cura di Borges – Casares, 1944).

Si ricordi, anche, il significato che Borges attribuisce al “libro” nell’intervista rilasciata ad Antonio Carrizo nel 1983, qui citata in apertura.

La protesta è ancor più sentita, in quanto Borges assiste al degrado della cultura letteraria tedesca (ed anche di quella russa), da lui amata e considerata faro della civiltà occidentale.

La traduzione dell’Urn Burial ha valore emblematico, è carica di significato simbolico, non persegue altri fini: essa non è fatta per essere pubblicata.

Egli, utilizzando lo spagnolo antico, in luogo di quello contemporaneo (il semplice spagnolo), va controcorrente rispetto al narratore, secondo cui tra cento anni le lingue a noi note spariranno, per essere sostituite dal linguaggio congetturale di Tlön.

La posizione ideologico-culturale assunta da Borges nel racconto fantastico “Tlön, Uqbar, Orbis Tertius”, con i mezzi propri del genere letterario fantastico, caratterizza tutta la sua produzione letteraria degli anni della seconda guerra mondiale (1938-1945) e diviene esplicita nei saggi o nelle recensioni, nei quali Borges critica con asprezza il fascismo, il nazismo, il comunismo,  l’antisemitismo e la connessa cultura dell’odio.

Nella recensione al romanzo di Shin Nai-An intitolato “Die Räuber vom Liang Schan Moor” (I Briganti, agosto 1938), raccolta in “Testi prigionieri”, Adelphi, 1998, pag. 251), Borges afferma: “E’ evidente che gli avvenimenti politici influiscono sulla letteratura di un paese; imprevedibile è invece l’effetto particolare di tale influsso. … Sette secoli dopo, l’Impero tedesco è retto da una dittatura: uno degli effetti collaterali di quell’impetuoso regime è il declino delle opere originali in tedesco e l’immediato aumento delle traduzioni”.

Nella stessa raccolta, recensendo un libro dell’autrice tedesca Elvira Bauer (maggio 1937), dal titolo “Trau keinem Fuchs auf grüner Heid und keinem Jud bei seinem Eid” (Non fidarti della volpe nel campo né del giuramento di un ebreo), egli afferma: “L’intento del libro è di iniziare i bambini e le bambine delle scuole ai doveri e ai piaceri inesauribili dell’antisemitismo. Sento dire che in Germania ai critici la critica è stata proibita e che non è consentito loro se non descrivere le opere”. E mette in risalto due frasi estratte dal testo: “I bambini di Germania amano il Führer tedesco, temono Dio che sta in cielo, disprezzano l’ebreo”. Ed ancora: “Il tedesco cammina, l’ebreo striscia”.

In un articolo pubblicato sulla rivista Sur (n. 49 di ottobre 1938) dal titolo “Una exposición afligente”, Borges attacca l’antisemitismo nazista e l’applicazione dell’ideologia al campo culturale.

Nel saggio “Due libri”, della raccolta “Altre Inquisizioni” (1952), egli, recensendo un saggio di Bertrand Russell intitolato “Genealogia del fascismo”, evidenzia come “L’autore comincia con l’osservare che i fatti politici procedono da speculazioni molto più antiche e che suole intercorrere un lungo periodo di tempo tra la divulgazione di una dottrina e la sua applicazione”…. “Hitler, orrendo per palesi eserciti e segrete spie, è un pleonasmo di Carlyle (1795-1881) e anche di J. G. Fichte (1762-1814); Lenin, una trascrizione di Karl Marx”.

Le citazioni potrebbero proseguire.

Ciò che emerge evidente è la posizione ideologica ferma assunta da Borges contro ogni totalitarismo, responsabile, sul piano culturale, della cancellazione delle radici, della memoria e della creatività artistica.

Uqbar, Tlön ed Orbis Tertius simboleggiano l’evoluzione di un sistema di pensiero totalizzante, una “torre”, di radice gnostica, culminata nell’idealismo tedesco del XX secolo, per effetto del quale pochi iniziati hanno ordito la distruzione del mondo attuale (apocalisse) e la realizzazione di un terzo mondo in ipotesi migliore dell’attuale, perché comprensibile agli uomini, in quanto da loro stessi concepito (da scacchisti, non da angeli), mondo, che, però, alla prova del fatto storico, ha dato vita all’orrore dei totalitarismi, con tutte le conseguenze atroci che sono nella memoria collettiva (torre di sangue).

Borges letterato, denuncia con vigore tali orrori e vi si oppone con gli strumenti simbolici propri del genere letterario e, ancor più, di quello fantastico.

Alla distruzione del patrimonio valoriale del mondo attuale, egli contrappone un’opera, l’Urn Burial, che racchiude e rappresenta in mirabile sintesi, anche sotto il profilo del bello stilistico, una cultura ed un insieme di significati, che il manipolo di iniziati gnostici vuole abbattere: le radici dell’uomo, il senso della Storia, il significato della morte ed il connesso senso del limite, la denuncia della vanità dell’uomo e, soprattutto, il valore della letteratura come tradizione della cultura.

Egli traduce questo libro, cioè lo trasferisce nell’oggi, preservandone, però, anche il bello stilistico (adotta lo stile di Quevedo), e non lo traduce per darlo alle stampe, ma, come detto, soltanto per testimoniare, con il gesto, la sua posizione ideologica, il suo credo, dinanzi alle profonde modificazioni in corso nel mondo, ma non ancora concluse nel 1940.

Nel 1976, all’età di settantasette anni, Borges riprende i concetti ed i ragionamenti espressi in “Tlön, Uqbar, Orbis Tertius”, nel racconto “Utopia di un uomo che è stanco” inserito nella raccolta “Il libro di sabbia”.

Questo racconto ha una forte analogia strutturale e semantica con “Tlön, Uqbar, Orbis Tertius”.

Vi si narra di un mondo utopico (che si svolge nel futuro), un mondo impregnato d’idealismo berkeleiano, dove vige l’”Esse est percipi”, dov’è negata l’identità personale (Hume), dove non esiste il plagio, perché non c’è identità autoriale, dove ogni uomo è il proprio Gesù Cristo e dove il suicidio è una libera scelta (Hume, Hegel, Schopenhauer e Nietzsche); un mondo, soprattutto, nel quale Adolfo Hitler risulta essere, paradossalmente, un benefattore dell’umanità, per avere inventato i forni crematori, funzionali all’esercizio della bella libertà di suicidio.

Borges, chiude il racconto con un deciso revirement, dissociandosi anche qui, come aveva fatto in Tlön, da quel pensiero e dalla realtà (atroce) risultante dalla sua applicazione.

 

Valerio  Ferlito

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

J. L. Borges: Tlön, Uqbar, Orbis Tertius (riflessioni su)ultima modifica: 2016-03-25T11:59:36+01:00da lettore2015
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